È ri-nato in un villaggio di alta montagna nella regione del Ladakh, nell’India del Nord. Ri-nato perché il bambino di nome Padma Angdu all’età di cinque anni, nel 2009, è stato riconosciuto come la reincarnazione di un monaco vissuto in Tibet, divenendo quindi, per la tradizione buddhista, un Rinpoche. O, nel suo caso, un possibile Rinpoche; non riuscendo a individuare legami certi con la sua vita precedente il monastero vicino a casa che lo ha inizialmente accettato lo espelle. Angdu ha una famiglia (la madre, la sorella), ma viene affidato, per essere istruito e accudito, all’anziano monaco Urgyan Rickzen, che tralascia il lavoro di medico tradizionale per vedere crescere quel bambino speciale il quale gli ha ridato nuova energia vitale. Un bambino speciale scisso tra il peso di una missione religiosa inattesa, accettata e vissuta tra piaceri (lo studio) e dolori (l’abbandono forzato del monastero), e i comportamenti propri di un qualsiasi coetaneo (i giochi e i divertimenti, pur se da alcuni di essi si allontana impaurito). Quel bambino e quel vecchio (che si tengon per mano…, sempre più, letteralmente, nel corso degli anni e dei luoghi, compiendo insieme un viaggio indispensabile, lungo mesi, dal Ladakh al Tibet – passando per città indiane, esponendosi al rigore delle stagioni, procedendo quasi sempre a piedi, fino a cime innevate avvolte dalla nebbia, con i loro corpi messi a dura prova dalle condizioni climatiche – per cercare tracce del passato di Angdu) sono i protagonisti del documentario, costruito come un film di finzione, Becoming Who I Was realizzato dal sudcoreano Moon Chang-yong (al suo esordio nel lungometraggio per il cinema dopo una quasi ventennale esperienza di regista di documentari per la televisione) e co-diretto dalla connazionale Jeon Jin (cresciuta in quattro paesi, in particolare in Sudafrica dove ha lavorato come giornalista, regista e produttrice). In concorso alla 65ª edizione del Trento Film Festival, Becoming Who I Was ha ottenuto la menzione speciale della giuria e il premio del pubblico per il miglior lungometraggio.
Il film di Moon e Jeon è, sopra tutto, la storia di una grande amicizia, fin da subito forte, fatta di separazioni temporanee (la breve assenza del monaco per andare a curare dei malati e così racimolare un po’ di soldi) e definitive (il bambino sarà infine accolto in un monastero tibetano, mentre l’anziano tornerà a casa, affrontando un altro estenuante viaggio – che non vediamo, come non vediamo la nuova esperienza umana e religiosa di Angdu, Rinpoche in attesa di conferma…). Ha un andamento in parte cronologico e in parte no nel seguire la vita di Padma Angdu e Urgyan Rickzen, due straordinari attori, dal 2009 al 2016. Alla parte iniziale ambientata nel Ladakh, nei posti frequentati e abitati dal bambino (la casa di famiglia, quella del monaco, il monastero, la scuola, e la terra gelida o soleggiata da percorrere ogni giorno), si sostituisce quella on the road, che sintetizza il viaggio verso il Tibet: l’India urbana che sorprende Angdu, fra strade caotiche, hotel, luci stradali scambiate per stelle, aria densa di smog; e poi coetanei con cui giocare, piccoli ritrovi lungo la strada dove scaldarsi, un confine militarizzato… E ha, Becoming Who I Was, l’impronta, evidente ma non troppo marcata, di un’estetica che, nella composizione delle inquadrature, nell’utilizzo di luci, denota la provenienza televisiva di Moon e Jeon.