Il tocco di Lubitsch deve aver stregato Bologna, dopo aver fatto danzare con la sua Rosita (1923) i mille occhi di una Piazza Maggiore sempre piena e felice. Quel tocco lo ritroviamo con grande sorpresa il giorno dopo, sempre a Bologna per Il Cinema Ritrovato, in Caravan, un musical della Fox datato 1934, che scopriamo essere sceneggiato da due collaboratori di Lubitsch. Il film a suo tempo fu bocciato dal pubblico statunitense, forse poco incline alle atmosfere da operetta viennese e costumi tirolesi (scenari pericolosi su cui scivola, nel 1948 con suo Il valzer dell’Imperatore, persino Billy Wilder, come ci ricorda lui stesso, nel documentario di Schlöndorff). Caravan è una carovana Rom che la tradizione vuole vada ad allietare con musica e canti, la vendemmia di un principato ungherese, al fine di garantire, con la sua ventata di anarchia e libertà, che il vino sia buono e l’annata speciale. Anche per questo, andrebbe riproposto a reti unificate europee, specie nell’Ungheria di Orbán e nell’Italia di Salvini a caccia di “zingari felici” da schedare ed espellere. Sarebbe una festa per gli occhi e per i cuori. In apertura un’immagine di Lubitsch sul set di Rosita.
D’altro canto Lubitsch aveva già fatto del “Sangue gitano” un inno alla libertà, nel 1918. E come la Carmen di Pola Negri, anche la Rosita di Mary Pickford è una ballerina e cantante di strada. Entrambi ambientati in Spagna, anche in Rosita c’è il richiamo, seppur vago, a un’altra Opera lirica: la Tosca. I toni sono però da operetta viennese, gli stessi di Caravan che vede alla regia uno dei più affermati registi dei musical di Weimar, Erik Charrell. La Fox gli mette a disposizione tutte le risorse di cui dispone, perché sta investendo nella grande migrazione a Hollywood degli artisti tedeschi del cinema di Weimar. Il primo a essere chiamato dalla Fox è Murnau, che influenzerà non poco i registi della scuderia, ma vi sarà anche il produttore Erich Pommer, a cui affidano la Fox Europe dopo che questi viene cacciato dai nazisti dalla direzione della UFA. Non è solo la Fox a essere coinvolta da un’emigrazione europea ed ebraica che cambierà Hollywood. Coincidenza ha voluto che, fuori dal catalogo e inserito per ultimo nel programma, ad aprire il festival sia stata un’intervista di 183 minuti del tedesco Volker Schlöndorff al tedesco Billy Wilder (Billy, how did you do it?, 1992), che inizia raccontando il suo rapporto proprio con Lubitsch. Anche lui, giovane giornalista emigrato negli USA per sfuggire al nazismo, verrà introdotto ad Hollywood come sceneggiatore e vincerà la sua prima nomination all’Oscar scrivendo per lui Ninotchka (1939). Per spiegarci il suo “tocco” Wilder sceglie una strada aritmetica, avendo in mente probabilmente la tecnica e l’arte del montaggio. Vi sono 4 modi – dice – per fare 4: 2+2; 1+3; 3+1; 1+1+1+1. Per Lubitsch ve n’è solo uno: 2+2, il suo. Ed è difficile non credergli di fronte all’eleganza di tutte le sue soluzioni, precise ma prive di alcun rigore ossessivo e dotate di leggerezza. In Rosita lo riconosciamo nella simpatia per la cinica coppia reale, con un Re libertino e una Regina complice e indulgente. Quest’ultima ha solo qualche figurazione ma forse sono i momenti più gustosi del film. Piccoli ma incisivi contrappunti facciali di Irene Rich, un’attrice non di primo piano che ritroveremo però due anni dopo con un ruolo di protagonista proprio con Lubitsch in Il ventaglio di Lady Windermere. Un film prodotto dallo stesso regista e distribuito dalla Warner. Saremo già nel pieno della stagione americana del regista tedesco, di cui Rosita è solo un film di passaggio, dato sino ad oggi come non visibile, ma ora recuperato e restaurato dal MoMA. Insieme a questo, a Bologna viene proposto anche il frammento di un film tedesco di Lubitsch, del 1918, sino ad oggi dato del tutto perduto: Der Fall Rosentopf. Fu rinvenuto da una collezione privata già nel 1987, ma c’è voluto molto tempo perché lo si riconoscesse.