È un cinema sempre in movimento, sulla scia di quanto scriveva Marcel quando definiva l’uomo “viator” nel senso di «essere in cammino che desidera e spera, così si apre al futuro»; per questo è cinema sorprendente, dell’incanto e delle meraviglie, sempre aperto verso un altrove, in fermento, mai scontato, dal gusto minimalista, poetico, a suo modo sovversivo. Da cinquant’anni, quello del maestro Jean-François Laguionie è cinema che guarda a forze epifaniche, attratto e appassionato, rapito e innamorato com’è dell’oceano, della natura tutta, della musica, degli affetti profondi, dei ricordi. Intriso di lirismo e visioni estatiche come quelle raccolte nell’apocalittico Gwen, o del libro di sabbia, completamente immerso nella sabbia, o in L’isola di Black Mor, film di pirati e fantasmi del passato guardati come maestri d’avventura, il suo è pure cinema della memoria capace di interrogare il tempo per leggere il presente e interpretare l’avvenire con consapevolezza e lucidità, restando ancorato al sogno di una civiltà umana imperfetta, senza dubbio, ma in tensione verso una continua compiutezza. Lo ricordava bene anche negli ultimi titoli della sua produzione, sia attraverso la delicata poesia di Le stagioni di Louise, allegorica rappresentazione del tempo che finisce e ci lascia in solitudine, sia con il suo personalissimo manifesto ecologico-antirazzista di Il viaggio del Principe. Un assunto espresso nuovamente nel suo ultimo lungometraggio, l’autobiografico e struggente Una barca in giardino, ispirato alla leggendaria vicenda di Joshua Slocum che completò il giro del mondo in solitaria nel 1895.
Dallo sguardo dedicato al sogno d’avventura costruito da due genitori molto speciali fino alla narrazione di un percorso interiore, il film segue il solco di un’altra avventura che rappresenta il passaggio dall’infanzia alla giovinezza del giovane François mentre osserva padre e madre costruire una barca in giardino e, in pratica, inseguire un sogno. Una barca in giardino inquadra la sua prospettiva, quella del François che diventerà artista crescendo nella Francia post-bellica nei primi anni Cinquanta coltivando esperienze e nuove opportunità ma anche la vicenda personale di un altro homo viator che fa i conti con la propria storia e con la Storia, che guarda dalla finestra e si trova ad affiancare il proprio padre, misterioso e laconico, nella costruzione di un oggetto del desiderio, un veicolo della memoria, un luogo dell’anima, qualcosa che resiste. Romanzo di formazione, intreccio avventuroso che pone l’accento sulla complessità e profondità dei sentimenti, ritratto socio-culturale di un paese in trasformazione e proiettato in un futuro di benessere e prosperità, riflessione sul cinema a partire da un contesto spazio-tempo dove tutto, magicamente, sembra possibile, l’ottavo lungometraggio di Jean-François Laguionie abbraccia questo e molto altro. Adottando sempre uno stile grafico funzionale al racconto, alla relazione con i paesaggi, alla definizione di una psicologia dei personaggi è basato su un tratto essenziale, gentile, sfumato, con linee decise ma morbide, colori tenui, caldi, immagini pastose, atmosfere rarefatte ma aderenti alla descrizione del contesto rurale, marittimo o urbano, tutti elementi che generano un ritmo incalzante e colmo di mistero.
Sorprende la capacità di controllare tutti questi vettori espressi: dall’idea di sviluppare una sorta di alternativo apologo famigliare allo spunto di considerare il film alla stregua di un diario di bordo che elenca e dettaglia le tappe di un viaggio che avvicina al raggiungimento del traguardo; ugualmente il film è attento a risalire alle ragioni profonde delle incomprensioni generazionali così come mira a tratteggiare un atipico coming of age sentimentale, tra un’imbarcazione e un fiume, una bugia estiva e un amore tenuto nascosto. Sono pennellate che svelano quindi una tecnica, un modo, ma anche un mondo costruito su ricordi sfocati e non del tutto definiti ma resi possibili dalla potenza di un cinema che non si impone e dalla sua capacità affabulatoria di stringere patti con la finzione della realtà. È un impressionismo che rimanda allo stile rappresentativo e alle vicende del cinema di Isao Takahata e che, in chiave europea, non può non essere affiancato ad operazioni analoghe per audacia e profondità come Titina di Kajsa Næss o Sasha e il polo nord di Rémi Chayé ma pure ad un’operazione molto originale, soprattutto per la dimensione lavorativa e biografica, come Manodopera di Alain Ughetto. Più di ogni altra cosa, è cinematografica l’idea su cui si fonda l’intero film: da una finestra osservare lo svolgersi degli eventi, la trasformazione del mondo e di sé stessi. Come accade a quella barca nel set giardino: diventare altro, immaginare, andare oltre, scomparire e riapparire.