Infinity War ovvero “Avengers – Episodio III”, dopo i primi due di Joss Whedon. Ma anche in quanto cinecomic più prossimo al lirismo de La vendetta dei Sith e alla sua conclusione sospesa che si apre a una futura Nuova speranza. Con il capolavoro lucasiano, il film dei fratelli Anthony e Joe Russo condivide infatti la grande anticipazione per un confronto a tutto campo che capitalizzi su quanto seminato negli anni precedenti. Ma, allo stesso tempo, anche la capacità di modulare un universo composito. Il tiranno Thanos assurge così a deus ex machina di un racconto che conosciamo già nelle sue articolazioni, in quanto scritto nell’evidenza del suo dover andare secondo copione: l’uno vuole collezionare le Gemme dell’Infinito, gli altri, gli eroi, devono coalizzarsi per fermarlo. Semplice, lineare, forse anche troppo rispetto alle strutture più spiazzanti dei precedenti Russo-movie, The Winter Soldier e Civil War. Ma ecco che quel canovaccio si rigenera attraverso la prospettiva del dolore che ci dona un “cattivo” crepuscolare, afflitto. Un mostro che ci sorprende, ma che è allo stesso tempo coerente con quelli dei film appena citati, con il Soldato d’Inverno macchina di morte suo malgrado e con il barone Zemo che agiva malinconico, sfruttando le disgrazie sepolte nel passato degli eroi. Il Thanos di Josh Brolin è una figura minacciosa, larger than life ma in un certo qual modo anche “piccola”, perché schiacciata da una missione che lo sovrasta: riunisce in sé l’inevitabilità tragica del destino e la volontà oppressiva dell’angelo caduto che ha perso il lume della pietà e ragiona soltanto in termini distruttivi – i paragoni con Darth Vader, una volta di più, si sprecano.
Ed è, fortunatamente, un guerriero implacabile, che “parla troppo” ma che sa anche agire con forza implacabile, e permette così ai due fratelli registi di perpetuare il talento per grandi scene d’azione corali, in una messinscena magniloquente dove domina tutta la grandeur del kolossal da fine dei giochi. Il momento del trionfo diventa così anche quello della disfatta, che riscrive lo status quo, sovvertendo l’ordine costituito. L’aspetto interessante dell’operazione, ancora una volta come già in George Lucas, è infatti il metodo attraverso cui il dolore diventa la chiave d’accesso a un linguaggio universale in grado di unire gli estremi: il racconto “semplice” si fa articolato e in grado di reggere i 150 minuti di durata, mentre il dramma della battaglia fra scenari terrestri e creature fantastiche si apre alle possibilità offerte dalla componente ironica. Piccolo marchio di fabbrica dei Marvel Studios fin dalle origini, quest’ultima, esplorata con più o meno intensità nei vari “capitoli” della saga, e che nel tempo è diventata quasi uno studio metanarrativo sulle possibilità di manipolazione dei toni all’interno dei registri più disparati. L’approccio di per sé è propedeutico alla possibilità di inserire sullo stesso tracciato l’avventura cosmica e “sbruffona” dei Guardiani della Galassia e i tipici drammi degli Avenger, ma non solo: c’è la componente magica del Doctor Strange e la prospettiva “dal basso” e metropolitana dello Spider-Man di Tom Holland, eroe di quartiere che si ritrova catapultato nel “giro grosso”, dove porta il suo entusiasmo, ma anche il suo spaesamento. Una sorta di testo multiplo che nell’unione degli elementi simboleggiati dalle Gemme diventa perciò possibilità di sintesi fra tutte le storie possibili. Avengers: Infinity War, in questo senso, è davvero quanto di più vicino si sia visto a quella libertà narrativa dei cross-over cartacei, in cui il senso generale del tutto non si ritrova nelle singole parti, ma riesce comunque a esserne la somma. Ma, allo stesso tempo, è anche un prodotto che più di altre volte riesce a raggiungere una propria autonomia rispetto alla fonte, non spinge necessariamente a correre a casa a rileggere gli albi, perché è il frutto di un’autosufficienza cinematografica che questo Marvel Cinematic Universe è riuscito infine a raggiungere. Anche in questo caso sono estremi che si toccano, in fondo.