Nel titolo in originale (Bacalaureat, maturità) c’è già tutta l’ossessione del film. Al suo quinto film da regista Cristian Mungiu torna a parlare di prigioni e sceglie la famiglia e una piccola città della Transilvania per mettere in scena il suo racconto, amaro e cinico e, a dire il vero fin troppo programmato. Il medico Romeo Aldea e sua moglie hanno un sogno: veder diplomata la figlia a pieni voti per poterla mandare a studiare in Inghilterra. Ma non si tratta di un riscatto sociale, perché i coniugi hanno vissuto a lungo all’estero prima di fare ritorno nella Romania del dopo Ceausecu. Il fatto è che hanno visto sgretolarsi tutte le loro speranze e ora cercano di fare un passo indietro, recuperare un errore di fatto irrecuperabile. Il secondo film rumeno in concorso a Cannes è, dunque, ancora una questione di famiglia, non quella ipertrofica di Cristi Puiuin Sieranevada, che si moltiplica sotto i nostri occhi dentro le stanze di un appartamento borghese nel giorno di una celebrazione religiosa, bensì un nucleo famigliare più che mai sobrio, eppure ugualmente soffocante.
Il giorno in cui hanno inizio gli esami di maturità un mattone viene lanciato contro la finestra dell’appartamento al piano terreno. Gesto destinato a restare senza colpevole, forse un segno premonitore per tutte le disavventure che si avvicenderanno in pochi giorni, mandando in frantumi con quel vetro anche tutti i progetti così meticolosamente preparati. Sarà un viavai di urgenze, episodi violenti, discorsi, compromessi, litigi e conti da fare con la realtà, soprattutto da parte di un uomo che non intende cedere al destino. Perché quello che sembra voler portare a termine Mungiu in questo film, è proprio un confronto, anzi, una resa dei conti tra i diversi piani della realtà, quella immaginata e pianificata e quella, invece, violenta del quotidiano. Ne esce il ritratto di una Romania avvilita e sconfitta, intrappolata in tutti quei compromessi che la tengono prigioniera, nel meccanismo della corruzione e del ricatto in cui cade lo stesso protagonista. La storia, a questo punto, si trasforma in un gioco di forza e di forzature. Da una parte la lotta allo sfinimento da parte di Romeo, dall’altro il vicolo cieco in cui finisce il film stesso, oppresso dalla sua stessa mancanza di coraggio, intrappolato nel dover esibire racconti e sentimenti, nelle derive didascaliche che non riescono a farsi film. “Bacalaureat appartiene a quel tipo di cinema che distingue la realtà dal realismo” – sottolinea Mungiu – che, infatti, sceglie un realismo soggettivo, completamente assorbito dalla prospettiva singola del medico Romeo, frustrato per aver preso decisioni sbagliate a suo tempo, divenuto irragionevole, insensibile, calcolatore e, alla fine, colpevole. La verità gli si rivolta contro in un modo beffardo, quasi crudele, perfettamente in sintonia con quel paesaggio grigio e insicuro che ha circondato ogni movimento e ogni tentativo di evasione. Il vetro rotto dell’inizio diventa chiaramente l’immagine di una sconfitta, la rottura che non si potrà più aggiustare.