Magari sarà stato per merito delle polemiche dello scorso anno a proposito degli #oscarssowhite o magari sarà stato un caso; resta il fatto che in questi primi mesi dell’anno anche le nostre sale si sono riempite di film a tematica african-american, cosa inusuale – ahimé – per il nostro sistema distributivo. Così, assieme agli amori gay nel ghetto di Moonlight, alle lavoratrici proactive di Il diritto di contare, al tormentato amore interraziale di Loving, ai documentari orgogliosamente politici I Am not Your Negro (in sala) e XIII Emendamento (su Netflix), è arrivato anche Barriere, che Denzel Washington ha diretto e interpretato portando sullo schermo l’omonima pièce di August Wilson, vincitrice del Pulitzer nel 1987. Il film ci introduce immediatamente il protagonista, Troy Maxson, un cinquantenne di colore che lavora come netturbino per le strade di Pittsburgh. Troy vive con la moglie Rose e il figlio Cory. Ha un unico amico, il collega Jim; un fratello, Gabe, tornato dalla guerra con un trauma che lo ha reso un eterno bambino; un altro figlio, Lyons, che mostra insofferenza verso l’autoritarismo protettivo del padre. Troy è un uomo dai sentimenti inespressi, spiccio nei modi e implacabile nelle decisioni: un padre padrone con un cruccio, la carriera da giocatore di baseball che gli è sfuggita dalle mani, rendendolo incattivito e insensibile ai sogni e ai bisogni della sua famiglia. Quando Cory manifesta l’intenzione di andare al college per inseguire il sogno sportivo del football professionistico, Troy si mette di traverso rompendo il fragile equilibrio che teneva insieme quel branco eterogeneo.
Barriere non cerca di nascondere, sin dalle prime scene, l’origine teatrale del soggetto: dopo un inizio nelle strade del quartiere, il film si barrica tra la casa e il piccolo cortiletto recintato che presto diventeranno i luoghi di incontro e di scontro tra i personaggi. La claustrofobia è tangibile anche negli angusti spazi aperti e rispecchia la chiusura dolente del protagonista, il suo recintare ogni sogno di evasione, la sua incapacità di pensare per gli altri un futuro differente dal proprio. Troy è uomo concreto, ma di una concretezza che paralizza ogni potenziale scalata sociale, pronto a mangiare i figli piuttosto che lasciarli a un’indipendenza in cui è stato abituato a non credere. La costruzione del film segue una struttura ben definita ma senza guizzi: una suddivisione in tre atti che raffigura tre stazioni di un calvario personale in cui il protagonista non riesce ad evolvere né a stare al passo di un mondo che almeno in parte sembra cambiare, vittima di una diffidenza che seppellisce vivi, che aliena gli affetti, che condanna a una marginalità volontaria. Barriere è una riflessione dall’interno di una diffusa (soprattutto all’epoca) mentalità deleteria all’interno delle black communities, in cui la sfiducia nella società bianca tracima in un vittimismo cosmico che ostacola l’emancipazione, personale e sociale. Il lavoro di Washington sembra concentrarsi esclusivamente sulla rappresentazione tattile di questa working class machista e autolesionista: si fa corpo attoriale (e con lui una straordinaria Viola Davis nel ruolo di Rose) con le rigidità della fatica e le posture del ruolo, strascica la voce fino al parossismo nella ricerca mimetica di uno slang appropriato, si impossessa del personaggio mettendolo al centro di un sistema tolemaico in procinto di crollare. La messa in scena, purtroppo, manca invece di sfumature altrettanto sottili: la fedeltà monolitica al testo originario impedisce ogni possibilità di attualizzazione, di arricchimento, di qualche tocco in levare. Tutto è detto, enfatizzato con didascalica chiarezza. Dialoghi e monologhi si susseguono spingendo verso un’ammirata ma implacabile assuefazione. E se Barriere si dimostra un ring perfetto per un magnifico scontro attoriale, non si può evadere la sensazione asfittica di un film che non riesce a superare i propri limiti, finendo per mancare, proprio come il suo protagonista, di ambizione e di ispirazione.