Noto per le sue ibridazioni documentarie nel raccontare la tragica storia indonesiana degli anni Sessanta del Novecento (L’atto di uccidere, The Look of Silence), il regista statunitense Joshua Oppenheimer, nel suo film più recente, The End (presentato in proiezione speciale alla Woche der Kritik in corso al festival di Berlino e dato in uscita nelle sale italiane a giugno), si è immerso in un universo di puro artificio per descrivere le possibili conseguenze delle anomalie ambientali che rischiano di distruggere il mondo. Ha immaginato un futuro prossimo dove – così sembra inizialmente – solo un ristretto gruppo di persone è sopravvissuto a una catastrofe e vive da oltre vent’anni nel chiuso di una dimora lussuosa ricavata negli immensi spazi di una ex miniera. Un enorme set “sigillato”, senza indicazioni geografiche, un luogo senza nome chiuso in stesso. Eppure non impenetrabile. Perché un giorno “bussa alla porta” una Ragazza (Moses Ingram; quasi tutti i personaggi non hanno nomi propri e nei credits sono chiamati in maiuscolo con il ruolo a loro destinato) e mette in subbuglio ciò che fino a quel momento pareva un equilibrio definito dentro il quale interagiva il nucleo scampato alla devastazione: il Padre che ebbe una carriera nell’industria petrolifera e che sta scrivendo un’autobiografia (Michael Shannon); la Madre appassionata di arte (Tilda Swinton); il Figlio ventenne che non ha mai visto il mondo e ne ri-costruisce parti con dei modellini, oltre ad aiutare il Padre nella stesura delle sue memorie (George MacKay); l’Amica di lunga data della Madre che custodisce un segreto – che sarà rivelato – e funziona da “governante” dipendente da abuso di farmaci (Bronagh Gallagher); il “maggiordomo” gay Butler (Tim McInnerny); il Dottore che ha il compito di tenere sotto controllo lo stato di salute di tutti (Lenny James).
Quello che differenzia The End da altri film di fantascienza distopica è il tono scelto da Oppenheimer che, per parlare di crisi climatica, relazioni sociali tra classismo e razzismo (la Ragazza che si è salvata, unica della sua famiglia, attraversando un fiume è nera e si può leggere il suo personaggio come metafora dei rifugiati costretti a scappare dalle loro terre), compone in quella moltitudine di interni domestici e dei suoi dintorni post-industriali sabbiosi e rocciosi, coperti da uno strato di ghiaccio come se fossero cristallizzati, una rappresentazione al tempo stesso teatrale e musicale. The End, con le costanti entrate e uscite di campo dei personaggi, assume la forma di un palcoscenico espanso sul quale si alternano dialoghi recitati e canzoni all’interno di una stessa scena. The End è un musical, tutti e tutte cantano esprimendo anche così i loro sentimenti e tormenti.
Mentre una macchina da presa in continuo movimento e spesso in piano sequenza asseconda gli spostamenti dei personaggi “danzando” negli ambienti con programmata fluidità, in-seguendo corpi che possono avviare un numero in una stanza e proseguirlo altrove senza che ciò risulti azzardato perché siamo nel musical e quindi nell’esplosione dell’artificio nel quale credere proprio grazie alla sua dimensione di incredibile. Il mondo di prima affiora da qualche fotografia, ritaglio di giornale, filmini visti su un tablet. Momenti nei quali i personaggi esprimevano felicità a differenza di ora che, a parte certe “escursioni” leggere, sono, a vario modo, preda di angosce e incubi. A rendere tali emozioni c’è un cast che funziona, tanto le star Shannon e Swinton quanto chi è nei panni dei “comprimari” e ancora i giovani MacKay e Ingram i cui personaggi si innamoreranno e diventeranno una coppia, allargando quel nucleo che quella imposta reclusione può solo sognare di interromperla.