In un suo passaggio alla Milanesiana Colm Toibin spiegava che quando inizia a scrivere parte sempre da un dettaglio, una parola, un volto. All’origine delle sue opere c’è una vicenda incompleta, che poi arricchisce con la sua immaginazione. Brooklyn è nato così. Da un ricordo che ha per protagonista una vecchia amica di sua madre:”un’emigrante di ritorno in Irlanda, dopo aver trascorso molti anni negli Stati Uniti, che quando ero piccolo venne un giorno a farci visita. Nei suoi discorsi echeggiava di continuo la parola Brooklyn. Io però quel giorno non la ascoltavo per niente, perché non vedevo l’ora che se ne andasse per guardare finalmente la televisione. Ma quella parola, Brooklyn, mi è rimasta nascosta nella mia memoria. Poi, anni dopo, scrissi un racconto, da cui è nato per estensione il romanzo”. Che è un’opera di enorme sottigliezza, con un grande rispetto per i personaggi e conferma una felice definizione del New York Times:”Toibin è un pescatore paziente di emozioni sommerse”. Per portare aullo schermo questa storia di emigrazione ci voleva prima di tutto uno sceneggiatore in sintonia con il clima delle pagine, qualcuno che sapesse cosa voleva dire nel 1951 lasciare Enniscorthy, in Irlanda contea di Wexford, per andare a New York in cerca di fortuna. E Nick Hornby ha fatto un egregio lavoro. Riesce a restituire con partecipazione la storia di Eilis Lacey del suo rapporto con la madre e la sorella Rose che la spinge verso l’opportunità di una vita differente oltroceano. Là potrà cambiare la sua esistenza. Certo gli inizi sono difficili. A Brooklyn Eilis abita in un pensionato per ragazze, fa la commessa nel grande magazzino Bartocci e grazie all’aiuto di un sacerdote segue un corso serale per diventare ragioniera, ma soprattutto soffre di una devastante nostalgia. Poi incontra Tony un giovane idraulico italiano, che la corteggia con rispetto e pazienza. Obbligata a tornare in Irlanda per un grave lutto, Eilis vacilla di fronte alle ritrovata terra natia, dove un nuovo amore potrebbe nascere, ma è solo un’incertezza e infatti il romanzo si chiude così:”È tornata a Brooklyn avrebbe detto la madre. E, mentre il treno percorreva il Macmine Bridge alla volta di Wexford, Eilis immaginò gli anni che l’aspettavano, quando quelle parole avrebbero significato sempre meno per l’uomo che le aveva sentite e sempre più per lei. Sorrise a quel pensiero, poi chiuse gli occhi e cercò di non pensare più a niente”.
Il problema del film è rappresentato dal regista John Crowley (nel 2015 autore di due episodi di True Detective) che appare stranamente intimidito, in difesa. Molto attento a lavorare sulle superfici, a calibrare i movimenti di macchina, impeccabile nella ricostruzione storica, ma didascalico fino all’eccesso. Tralascia di lavorare/interrogarsi a fondo sulla ricerca del proprio posto nel mondo e di “una casa” che sono tematiche ricorrenti nella produzione di Colm Toibin. Per sua (e nostra) fortuna nel film c’è però una fenomenale e magnetica Saoirse Ronan (candidata all’Oscar e inspiegabilmente non premiata) che costruisce un personaggio molto stratificato, abitato da una progressiva maturazione interiore che lascia ammirati. È ingenua, ma non in maniera scontata; è attraente, ma non è del tutto consapevole del fascino che esercita sugli altri; è passiva, remissiva, ma a volte si ribella. Non è, insomma, un personaggio piatto, a senso unico. Certo quando metti in scena un personaggio non è così facile rendere tale ambivalenza, ma la Ronan, nonostante una regia che non l’aiuta, ci riesce. E fa evolvere il temperamento di Eilis, che cresce come donna, come lavoratrice e coltiva la propria autoaffermazione. Saoirse Ronan gestisce gli intrecci narrativi con delicatezza e grazia impalpabile, quando può si rifugia in pause e silenzi che l’aiutano a venire a patti con speranze, delusioni e timori che accompagnano le sue giornate.