Cannes 71- Dogman, l’infinita solitudine di Garrone

A immaginare la carne, il sangue, la violenza, si è completamente fuori strada. Dogman è un oggetto soffuso, meramente mentale, per quanto in realtà totalmente privo di un approccio soggettivo al protagonista. E’ come se Matteo Garrone fosse preso dal racconto del racconto del Canaro della Magliana, l’immagine vagamente keatoniana di un uomo fragile e solo che si intestardisce contro il suo destino. Del resto il tranfert passa per le pagine dei Fattacci di Vincenzo Cerami e più di dieci anni fa l’idea che sfiorò il regista fu quella di incarnare Marcello nel corpo del Mostro Roberto Benigni… Poi il tempo è passato, è arrivato Marcello Fonte con la sua aria minuta e la voce puntuta, lo sguardo ingenuo e gli occhi vuoti: notevole! Il suo nome è caduto sul personaggio (a debita distanza dal vero Canaro, all’anagrafe Pietro) portando con sé risonanze dolcevitali magari improprie, però chissà… Marcello, il Dogman, è non meno solo di quel Marcello felliniano, non meno perso e impotente di lui sul litorale di Ostia davanti alla bestia spiaggiata (in fiamme), a chiamare inascoltato qualcuno che non lo sente, che in realtà non c’è: come quel Marcello, anche questo è solo. La cerchia di negozietti si apre sullo spiazzo della periferia popolare come la pista di un circo desolato, spettacolino d’umanità composto dal giro di venditori amici di Marcello, o meglio conoscenti: “Mi conoscono, sono uno di loro, si fidano di me”, dice il canaro a Simoncino, cercando di allontanare da sé una complicità non desiderata.

 

Dogman è da prendere come il racconto di una solitudine che implode in se stessa, nella vana speranza di trovare uno spazio nella realtà, nel mondo. Potremmo immaginarlo come un Pinocchio nel paese dei balocchi, alle prese col suo Lucignolo personale. Solo che Garrone non è Collodi e l’ordine morale non è roba su cui si sofferma. Garrone preferisce lavorare sulla definizione della realtà in cui si muovono i suoi protagonisti, prigionieri di se stessi e della tensione esistenziale che li porta fuori strada. Il film è chiuso in una bolla: colori caldi ma marcescenti, lo scenario indefinito della periferia che si confronta con un litorale piovoso, il negozietto in cui Marcello intrattiene il suo dialogo di relazione con i cani, mentre fuori è tutto un gioco di forze contrapposte, questione di potere. Poi c’è Simoncino, ovvero Edoardo Pesce, la cui bravura sta nell’essere invisibile, aderendo all’idea di Garrone di fare di lui pura materia violenta, qualcosa che attraversa il film come un sacco, che Marcello può portare in spalla nonostante sia il doppio di lui… Simoncino è il segno negativo di un mondo a grado zero, esattamente come Marcello ne è il segno positivo: irrazionale, indefinito, scontornato, bulleggia il quartiere ma non va da nessuna parte. Marcello alla fin fine lo muove come un oggetto, si fa carico della sua colpa, cerca di entrarci in relazione e alla fine lo porta nel suo mondo e se lo mette in spalla. Marcello è per Garrone l’ennesimo racconto di una narrazione di sé che guarda al sogno e tiene per mano la delusione: Reality, Luciano, Aniello Arena che qui fa il poliziotto che offre una via d’uscita a Marcello e alla fine lo sbatte in prigione, proprio come lui s’era recluso nella casa dello show…Dogman insiste insomma su una scena umana che trattiene la dolcezza del suo protagonista (la figlia, le immersioni, il sogno del viaggio esotico) e la spreca nella sua infinita solitudine e inane bontà: dall’altro lato dell’Imbalsamatore c’è sempre un Marcello che i cani non li impaglia, ma li pettina, li tiene in vita… Il suo destino però o segnato a monte, non sfugge all’isolamento, alla solitudine, all’illusione. Marcello non ride davanti a una piscina chiusa in uno studio televisivo, ma piange al centro di una piazza desolata e piovosa, vicino al mare aperto. Pinocchio sta arrivando…