New York, Queens, autunno del 1980. Paul ha dieci anni e affronta il passaggio dalle elementari alle medie con distacco disarmonico. La scuola pubblica che frequenta non suscita il suo interesse, tutto concentrato a esprimersi attraverso i disegni che crea e che sembrano renderlo potenzialmente popolare con i suoi compagni. Paul è in fondo un emarginato che cerca successo e che finisce per trovare calore scolastico solo nel rapporto con Johnny, un ripetente di colore sfrontato per difesa, ribelle per necessità. A casa le cose non vanno poi molto meglio: il fratello maggiore Ted, che a differenza di Paul frequenta una scuola privata destinata all’élite, tende a bullizzarlo; sua madre è troppo impegnata a oliare i meccanismi familiari per prestargli sufficiente attenzione; il padre è una pentola a pressione umana, sempre in bilico tra un generico distacco emotivo e un’aggressività compressa a stento. L’unica relazione che sembra donare serenità e supporto è quella con il vecchio nonno materno, complice e solidale con il ragazzo, pronto a credere nel suo futuro di artista perché, per chi come lui ha conosciuto i drammi della persecuzione, ogni cosa, volendolo con forza, si può ottenere. James Gray in Armageddon Time, un racconto di formazione dal forte sapore autobiografico, tinteggia un affresco di una peculiare famiglia allargata di ebrei emigrati dall’Europa orientale in cerca di un mondo migliore e di una speranza di rinascita, mettendola però di fronte a un orizzonte sociale di rinnovata ingiustizia.
La nuova working class ebraica che è riuscita con fatica a emergere dal buco nero di una Storia matrigna presto si omologa alle nuove diseguaglianze e se ne fa portatrice quasi involontaria. Paul è nel mezzo, diviso da un nonno sopravvissuto e protettivo e da un amico in costante fuga dai servizi sociali. Paul si sente schiacciato dal peso di ingiustizie che non sente sue ma con le quali dovrà fare i conti una volta che la famiglia, per un distorto senso di protezione, deciderà di spedirlo nella scuola del fratello, come se un uniforme e un nodo di cravatta ben fatto lo potessero proteggere dal darwinismo sociale che affligge gli Stati Uniti come un cancro. L’irrequietezza della famiglia e il peso del passato sono una costante nel cinema di Gray – da Little Odessa a The Immigrant – ma in Armageddon Time il tono è più disteso senza però perdere la cupezza di fondo del suo sguardo. Paul è un bambino che non ha la fiducia della sua famiglia e che inizia ben presto a perdere la sua nei confronti di una società malata di un’ingiustizia incomprensibile agli occhi di un adolescente. Gray non affoga il suo pessimismo in un’indistinta malinconia vintage, anzi sceglie di riempire gli occhi del protagonista di una disillusione troppo adulta, di un pessimismo indefinibile ma evidente. Le differenze generazionali fanno i conti con il tempo che passa e con la fragilità del corpo; le strade di Paul e Johnny, dopo un’ennesima incosciente bravata, sono destinate a separarsi perché i loro mondi di provenienza, all’apparenza contigui, sono invece acqua e olio, impossibili da emulsionare. Armageddon Time parla davvero di una piccola, infinitesimale, fine del mondo che imperversa nelle case e nelle scuole di un’America lontanissima dal sogno di una società più giusta, una Land of Opportunities dove le opportunità esistono in realtà solo per pochi, certamente bianchi e sopra la soglia di povertà. A fare da coro, nelle televisioni che in sottofondo raccontano il mondo, la vittoria elettorale di Reagan e il timore di un nuovo pericolo bellico sembrano accentuare una depressione sociale e si preparano ad apparecchiare per Paul un futuro denso di nuvole che coprono un cielo che già dimostrava il suo grigiore.