Matthias è un rumeno emigrato in Germania dove lavora in un mattatoio. In un momento di esasperazione colpisce il suo capo e, prima dell’intervento delle autorità, si rifugia nel paese da cui era fuggito, un piccolo villaggio tra le montagne della Transilvania. Lì è costretto a reinserirsi nel mondo che aveva lasciato, affrontando le emergenze familiari che si susseguono come un’interminabile serie di ostacoli: il figlioletto ha smesso di parlare dopo un misterioso incidente nei boschi, dove sembra nascondersi un’imprecisata minaccia; il padre soffre di narcolessia e fatica a sostenere le lunghe giornate di lavoro; la moglie lo accoglie con gelida indifferenza, ormai abituata a una vita separata; l’amante è alle prese con il crescente malumore degli abitanti per l’assunzione al forno che gestisce di un gruppetto di immigrati cingalesi. Non è roseo l’affresco sociale di questo piccolo angolo di mondo che Cristian Mungiu dipinge in Animali selvatici: l’apparentemente placido paesello transilvano cova invece un rancore misto a inquietudine, vive una crisi dai risvolti paranoici. La “risonanza magnetica nucleare” del titolo-acronimo (in originale R.M.N.) – che rimanda, oltre che all’esame medico, alle consonanti della parola “Romania”, come in un abbozzato codice fiscale – è quella che Mungiu sembra fare a un intero paese (e, allargando l’inquadratura, all’Europa intera), vittima di una sorta di degrado neurovegetativo, pronto all’implosione sotto minacce non meglio identificate, sfiduciata all’interno e gonfia di respingente aggressività per chiunque possa considerare straniero.
Mungiu riunisce tante piccole storie personali, che fa attraversare dal suo protagonista, per arrivare, come in un teorema, a una visione più ampia, frantumata nella sua esplosività contraddittoria. Il film ha un andamento frammentario che via via si ricompone passando da un andirivieni tra i vari personaggi per giungere al lungo piano sequenza del pre-finale, in cui tutti si ritrovano nell’assemblea cittadina che eleverà la temperatura del conflitto. Sembra proprio questa la tensione primaria di Animali selvatici: l’impossibilità di ricomporre le molteplici fratture (sentimentali, sociali, umane, linguistiche) che hanno ridotto la collettività a uno specchio infranto. Le stratificazioni sono molteplici, in una sorta di effetto domino di intolleranza: Matthieu sfugge da una situazione in cui si sente respinto per tornare a casa dove diventa uno dei potenziali respingenti. La pacificazione sociale del paese, apparentemente tollerante in quanto abitato da tre comunità che parlano tre lingue differenti, è una facciata che crolla all’apparir dello straniero, perché in fondo, si è sempre stranieri per qualcun altro. E se una manciata di lavoratori dello Sri Lanka al minimo sindacale basta per sentirsi in pericolo, figuriamoci quanto minacciosa possa apparire l’ignota presenza che incombe nel bosco. Una catena di assedi e accerchiamenti che si propaga concentrica come le onde di un sasso gettato in uno stagno. Lo sguardo di Mungiu è severo e compassato, lo stile abitualmente consapevole e assai complesso nella sua apparente semplicità. Il portato metaforico del racconto però sembra a tratti fagocitare il film, come se l’ingombro del “Grande Tema” narcotizzasse in parte l’urgenza narrativa. Il villaggio immaginario, la Transilvania, la Romania, l’Europa formano una matrioska in cui lo stato di natura hobbesiano sembra essere l’unica legge rimasta in piedi. Tra vecchi che crollano di sonno e bambini che scelgono il mutismo resta una generazione in perenne fuga, incapace di relazionarsi e in preda a irrazionali paranoie. Una visione del mondo di tetragona cupezza, che rischia di appesantire la cristallina messa in scena di Mungiu: Animali selvatici, sineddoche concettuale dei nostri tempi malati, è un film-saggio a cui viene a mancare un po’ il fiato per un eccesso di note a piè di pagina.