Non è solo il grado “militare” ad accomunare Captain America e Captain Marvel, ma anche la diversa collocazione temporale delle rispettive origin story rispetto alla timeline consueta dell’universo cinematografico Marvel. Il super soldato di Steve Rogers “nasce” infatti negli anni Quaranta, in piena Seconda Guerra Mondiale, mentre l’eroina Carol Danvers arriva nei Novanta, distruggendo un Blockbuster Video dopo essere precipitata dallo spazio. L’aspetto interessante è come entrambe le operazioni possano in questo modo consentirsi la rappresentazione del proprio spazio in modo significativamente distante dal tono più standardizzato delle altre opere Marvel, e con una qualità che è puramente cinematografica. Gli anni Quaranta di Capitan America filtrano infatti l’estetica fourties attraverso un tono avventuroso e tecnologicamente retrò che guarda dichiaratamente alla “vulgata” di Indiana Jones. Nel caso di Captain Marvel, invece non è un particolare film a fare da modello, ma un insieme di stimoli del decennio interessato.
Come origin story, infatti, il film di Anna Boden e Ryan Fleck abbandona la consueta linearità narrativa e l’altrettanto classica trafila del personaggio normale che acquisisce i poteri dopo un evento straordinario per poi affrontarne le conseguenze: la narrazione invece ci immerge in medias res nell’educazione al comando di Vers, salvo poi cercare di ricostruire a posteriori i segreti celati dietro le capacità che la donna ha acquisito in precedenza. Un’indagine che diventa ricognizione sulla sua vera identità, a cavallo fra Terra e spazio cosmico. In questo si riconosce proprio uno degli stilemi degli anni Novanta, abituati a sperimentare la frammentazione narrativa e a ricombinare tra loro gli elementi narrativi classici (si pensi a Pulp Fiction, per citare uno degli esempi più estremi). Similmente avviene a livello visivo, dove i paesaggi terrestri guardano alla trasparenza delle figure e a toni cromatici più morbidi, che nei Novanta accomunavano molte opere spettacolari. Manca invece un riferimento narrativo diretto, una traccia che accomuni questa supereroina ad altre figure forti dell’epoca. Carol Danvers è infatti un personaggio “fuori schema” in un contesto che altrimenti riconosciamo come familiare. La caratterizzazione cerca in tal modo di sottolineare proprio questa sua alterità, spesso sotto forma di un umorismo raggelato, rispetto ai due mondi tra cui Carol si ritrova costantemente divisa. In virtù di tale scelta, l’intera epopea di Captain Marvel si articola nel segno dello sfasamento percettivo tra il perfettamente riconoscibile e l’ingannevole, a più livelli. Innanzitutto dal versante narrativo, con l’introduzione degli invasori Skrull, mutaforma che spesso ingannano protagonisti e non, assumendo le sembianze altrui. Secondariamente attraverso il gioco divertito con la mitologia sin qui settata dalle altre pellicole, che porta a riscrivere l’altrimenti serioso Nick Fury nel segno di una maggiore attitudine ironica. E poi attraverso il rovesciamento delle aspettative di spettatori e appassionati, che pretendono una dinamica coerente con quella dei fumetti, dove gli Skrull sono fra i “cattivi” per antonomasia dell’universo, mentre qui si rivelano invece vittime. La scelta, apparentemente capricciosa, si ritrova tutta nella natura molteplice della protagonista. L’eroina anticonformista di Brie Larson riesce infatti a tenere insieme l’anima intimista e “personale” del racconto, attraverso un carattere mutevole, ironico, demistificatorio e a tratti in controtendenza rispetto ai suoi poteri dirompenti. Ma soprattutto, immersa com’è in una situazione dove verità e finzione si confondono, Carol deve reimparare il suo rapporto con i vari mondi in cui agisce, ribadendo l’autodeterminazione dell’eroina femminile Marvel, che non ha bisogno degli insegnamenti impartiti dal mentore maschile di turno (in questo caso lo Yon-Rogg di Jude Law). Al contrario, è lei a decidere, in tutta autonomia, di portare avanti la missione di Mar-vell da cui eredita il nome. Giova notare a questo proposito come anche l’alieno venga cambiato rispetto alla controparte cartacea dove era un uomo, diventando una donna, e amplificando così il gioco delle corrispondenze falsate e della prospettiva al femminile da cui inquadrare il mondo. Più che un tassello di un percorso, Captain Marvel si rivela così un autentico manifesto tematico in grado di riscrivere gli equilibri di forza all’interno dell’universo Marvel creato dieci anni fa. Una rivoluzione chiaramente influenzata dalle moderne tendenze di una Hollywood che sta riscrivendo gli equilibri di genere e che riesce così a rendere l’ultima arrivata l’autentica prima della classe. Il tassello mancante della Infinity War, insomma, è forse l’autentica carta per un nuovo inizio.