Ha il corpo segnato dalla troppa vita vissuta, il vecchio Cass Cumerford, il protagonista di Flathead, opera prima documentaria dell’australiano Jaydon Martin, che nella Tiger Competition di Rottedam53 ha meritato il Premio Speciale della giuria. Tutto ossa, pelle e sparuti capelli, Cass è una presenza particolare di questo lavoro: fragile ma anche impavido, questo vecchio uomo è segnato da una mestizia capace però di dialogare con una fondamentale vitalità. Che poi è quella che lo spinge a mettersi in viaggio per tornare a Bundaberg, nel Queensland, nordest australiano, dove è cresciuto. Jaydon Martin lo segue con un piglio intenso e partecipe: il bianco e nero che adotta distilla il rischio di un certo folklore aussie che il rapporto con lo sfondo umano e ambientale potrebbe evocare. Ma, a prescindere da ciò, è proprio il suo modo di proiettarsi nella scena, di affiancare Cass e le altre figure che lo accompagnano, a determinare lo stile agile di Flathead, la divergenza dal classico approccio al pedinamento documentario che cerca una partecipe distanza. Di Cass scopriamo la storia per piccoli progressivi svelamenti, vaghe confessioni che nel corso delle giornate offre agli incontri che segnano il suo ritorno a casa: gli anni dello sballo con sua moglie, un figlio perso, una vita che gli ha dato occasioni per essere se stesso, magari a scapito di una strutturazione esistenziale che non mostra di avere.
La sua fragilità fisica è lo specchio di una vita trascorsa seguendo la corrente: Cass sembra una foglia rinsecchita che ha conosciuto il verde e ora tiene con determinazione il suo autunno. La spiritualità occasionale attivata dall’incontro con la fede di uno strano ebreo, che partecipa alla messa cattolica con la bandiera di Israele in mano e lo spinge a battezzarsi, è l’approccio a una consapevolezza del tempo che passa che Cass ovviamente mostra di tenere in considerazione con rassegnazione e leggerezza. Più che altro piange dentro di sé la morte del figlio e Jaydon Martin trova l’appiglio per attivare un cortocircuito con il concetto di fine del tempo quando viene a mancare il vecchio padre di Adrew Wong, un asiatico che il regista affianca a Cass come a creare per il suo protagonista terminale una linea di fuga nel tempo pieno della vita.
Flathead sta tutto in questa costruzione dinamica, che aggiunge figure al ritratto in maniera quasi estemporanea, eppure essenziale alla definizione dello scenario umano e soprattutto della narrazione di Cass. Il giovane padre di famiglia, la piccola comunità buddista, le feste nei locali, l’aborigeno che suona la chitarra davanti a un locale, col quale Cass canterà una sua canzone quasi dylaniana nel notevole finale… C’è un sincretismo nella definizione di questo personaggio che rende il film di Jaydon Martin un viaggio estemporaneo, ma estremamente finalizzato nella sua ricerca di uno spazio esistenziale e di un tempo umano.