Nel giorno in cui tutto ebbe inizio ci eravamo già stati: era il prologo di A Quiet Place II quando vedevamo l’arrivo sulla Terra degli alieni ciechi ma dall’udito finissimo e l’inizio dell’odissea della famiglia Abbott. La scelta di tornare ancora una volta a quel “Giorno 1” sembrava dunque portare in dote la promessa di un maggior approfondimento sulla situazione, per aggiungere dettagli sulle creature e sui motivi del loro attacco. Invece – e francamente la sorpresa giunge, oltre che inaspettata, anche abbastanza gradita – nulla di tutto questo. Il ritorno alle origini è un semplice spostamento sulla timeline per affrontare la vicenda da un differente punto di vista, quello di Samira, paziente oncologica che si ritrova suo malgrado costretta a lottare per quel po’ di vita che le resta. Di nuovo c’è che l’ambientazione retrodatata permette anche un significativo ritorno in città, al posto dei luoghi di campagna isolati in cui si sono rifugiati gli Abbott e gli altri superstiti – fra loro l’Henri di Djimon Hounsou, l’unico che rivediamo anche qui. La scelta di New York in tal modo diventa utile a ripensare la focalizzazione sui singoli personaggi nell’ambito di un mondo smarrito ma fortemente impresso nella mitologia moderna e di cui si stava perdendo il senso: il “silenzio” in cui piombano le vie e i quartieri che tante volte abbiamo visto rappresentati sullo schermo cerca in tal modo di ridare loro pregnanza e umanità. Un po’ come accaduto alle nostre città quando si sono svuotate per la pandemia e ne abbiamo imparato ad apprezzare maggiormente ogni angolo che riuscivamo a rivivere anche solo per poco. In questo senso va inquadrata la scelta di una protagonista ormai alla fine, ma che vuole ancora riconnettersi a quei luoghi e quegli spazi, scrollandosi quella disillusione tipica di chi non ha più nulla da perdere, mentre il desiderio un po’ fanciullesco di mangiare ancora una volta la pizza trascolora gradualmente nella voglia di tornare nei locali in cui suonava il padre, nel quartiere di nascita.
C’è per questo un’empatia efficace in A Quiet Place – Giorno 1, che arriva direttamente dalla scelta di affidare regia e sceneggiatura a Michael Sarnoski, uno le cui storie ruotano sempre attorno agli outsider e al desiderio di riconnettersi agli affetti perduti. Spulciando la sua filmografia può infatti capitare di imbattersi nel corto Love of the Dead, realizzato quando era a Yale, in cui un ragazzo, durante un’apocalisse zombie, si prende cura della fidanzata ormai diventata un undead. La trucca, la ama, le offre vittime con cui nutrirsi e le si offre, sorretto dalla dedizione data dai legami stabiliti dalla memoria e dalle esperienze condivise, in un mix di tenerezza e orrore particolarmente riuscito. Oppure c’è l’acclamato esordio di Pig, in cui un disfatto Nicolas Cage deve recuperare l’amato maiale domestico facendo al contempo i conti con il suo passato. Qui l’animale che spesso guida le azioni di Samira è un gatto, che spesso le sfugge di mano, si perde nei vicoli newyorkesi, è il tramite fra una dimensione intima e un’empatia dispersa fra le vie della città e che verrà messa alla prova quando sul percorso arriverà Eric, studente britannico trapiantato nella Grande Mela. Un altro outsider ovviamente, che peraltro rinfocola il discorso “politico” presente in filigrana, tra una cittadina nera di Harlem e un giovane ragazzo bianco presumibilmente upper class: una riscrittura del rapporto fra l’ex colonia e l’ex madrepatria, che diventa un gioco di reimparare a conoscersi sul filo delle rispettive fragilità.
Lei indebolita dal male, lui dallo straniamento dato dal non avere nessuno con sé e ogni filo con la propria realtà ormai reciso. Per entrambi il primo giorno del (nuovo) mondo è anche il finale di una vita (e una Storia) che ora deve fare i conti con il passato, imparando a donarsi all’altro in modo disinteressato per fornire un eventuale re-inizio. In questo modo, A Quiet Place – Giorno 1 diventa anche una riflessione metanarrativa fra le origini mute del cinema e il presente caotico in cui fermarsi per tornare a riflettere sul senso di una narrazione scevra delle tante storture del presente: pochi spiegoni, nessun colpo di scena gratuito, una sincerità distante dalla furbizia di tanto cinema esasperato, cui preferisce una narrazione ancora una volta “piccola”, inserita nel contesto più grande dato dall’invasione e dal forte precipitato iconografico di New York. Un risultato pregevole, che fa pensare più a un capitolo uno che a un terzo episodio, e in questo si nota l’intelligenza degli autori.