Viene da chiedersi come ci sia capitato Jordan Vogt-Roberts in mezzo a gorilla e ragni giganti, dopo aver esordito con il più classico dei coming-of-age in The Kings of Summer, racconto di fuga dalle rispettive famiglie per tre adolescenti che costruiscono la classica casetta nel bosco e provano a officiare il rito del passaggio all’età adulta in una sommaria e certamente irrisolta indipendenza. O, a voler percorrere il cammino ancora più a ritroso, con il corto Successful Alcoholics, atipica commedia sentimentale in sapor d’autodistruzione, che vede sotto la lente una coppia di irrimediabili giovani alcolisti. La risposta è proprio nell’ineffabile identificazione che il regista sembra provare nei confronti di personaggi prigionieri delle proprie ossessioni, che si estrinseca in una tensione escapista verso località fuori dai contesti urbani codificati, destinate però a metterli invece di fronte alle loro pulsioni distruttive, in un processo di rispecchiamento esteriore e interiore, destinato qui a culminare nel parallelo uomini-mostri. Il bosco dei re dell’estate si sovrappone perciò a quello di Re Kong dell’Isola del Teschio, mentre il microcosmo di varia umanità si scinde fra la volontà di sopravvivere affidata all’esploratore Conrad – nomen omen di un determinato rapporto con l’avventura e l’ignoto – e quella bellicista e fautrice di una guerra perenne portata avanti dal colonnello Packard di Samuel L. Jackson, che rimanda a scenari anch’essi conradiani, fino al più ovvio (e dichiarato) parallelo con Apocalypse Now.
Il tutto è raccontato con uno sguardo trasversale, capace di riflettere la tensione panica dell’ambiente più selvaggio, inquadrandone la particolare bellezza nei momenti di pausa dall’azione, soffermandosi sul ricco habitat umano e animale (e mostruoso). Emerge così un particolare gusto del dettaglio, che dona al paesaggio una qualità quasi onirica e trasmette un divertimento ludico della messinscena, sorprendente come le creature che si confondono con un paesaggio avvertito allo stesso tempo come ostile e meraviglioso. E poi c’è il particolare umorismo, inafferrabile, di quelli che ti mettono a disagio, come una battuta di cui non afferri il senso e ti lascia addosso una strana sensazione di sgradevolezza, perché ne cogli in ogni caso le implicazioni. È per questo che Kong: Skull Island diverte come il più classico film di mostri, ma riesce anche a esplorare qualche possibilità in più, oscilla fra momenti ironici e altri spiazzanti nell’eccesso gore, e spesso trova la sua quadra più nei comprimari che nei protagonisti – in particolare nel tenero e divertente sopravvissuto di John C. Reilly, che sogna un panino e una bibita davanti a una partita – pur mantenendo sempre Kong quale indiscutibile ago della bilancia, fra gli equilibri messi in campo. Viene in questo modo anche a chiarirsi l’altra domanda che il progetto suscita a monte, ovvero quale debba essere oggi il ruolo di King Kong nel cinema e nella società, dopo le svariate iterazioni di Cooper/Schoedsack, John Guillermin e Peter Jackson. La risposta di Vogt-Roberts si lega a doppio filo alle intenzioni transmediali della Legendary Pictures, che dopo Godzilla sogna di mettere in piedi il proprio universo mostruoso con titoli collegati in puro stile Marvel Studios. I mostri sono un riflesso delle nostre pulsioni più profonde, e funzionano quanto più riescono a chiamare in causa i traumi sepolti nell’inconscio personale e collettivo: accadeva così nella pellicola di Gareth Edwards, che rievocava gli eventi luttuosi di Hiroshima, Fukushima e dello tsunami del 2004; lo stesso dicasi per Kong, che lavora su una cifra più intima, legata sì ai traumi del Vietnam e dei Settanta, ma più in generale su un senso di isolamento dal mondo, una pulsione solitaria e refrattaria al confronto con l’altro che forgia da un lato l’ossessività di Packard, e dall’altra il ruolo di baluardo di Kong, diverso eppure unico e perciò indispensabile alla sopravvivenza degli uomini e dell’ecosistema dell’isola. Oltre a determinare, naturalmente, la particolare natura del film, capace di reggersi sulle proprie gambe, pur inserendosi in un contesto più ampio.