Detroit è la scena del crimine, lo spazio storico della ferita razziale urlato in faccia all’attualità di un’America ancora e sempre inconciliata. Dentro di sé come fuori di sé: dopo lo strazio d’umanità esploso sul lontano fronte iracheno di The Hurt Locker e dopo l’eliminazione del nemico esterno nell’oscuro scrutare a distanza di Zero Dark Thirty, questa volta Kathryn Bigelow si spinge nella carne viva del nemico interno, nello spazio domestico del dramma che pulsa (ancora oggi) nel perimetro americano. Come avesse in testa lo SQUID di Strange Days, la regista entra nel corpo dell’azione, sfonda la scena del crimine e staziona al suo interno con scelta precisa: guardarsi negli occhi, guardare in faccia se stessi per studiare la ferita mai cicatrizzata di un paese che vive nella paura, dentro come fuori di sé. Ecco la scena del crimine, dunque. Comunque la si guardi, resta pur sempre una scena: uno spazio nella cui profondità muoversi, ma anche uno spazio da osservare frontalmente. E questo Kathryn Bigelow lo sa bene. Il punto di contatto tra queste due posizioni rimane lo sguardo: che scruta, osserva, analizza e in qualche modo ordina, governa, controlla. Scrivendo e descrivendo gli eventi: in onore della sua funzione testimoniale, se si è attori in scena; o in ragione della sua funzione conoscitiva, se si è spettatori, indagatori. Ma in Detroit la dinamica è fluida: testimoni, criminali, indagatori, vittime e carnefici transitano in uno spazio confusivo, in cui la verità è l’ombra di una finzione da rimuovere. Detroit stravolta nel luglio del ’67 dalla rivolta dei neri vessati dal sistema bianco; rivoltosi, guardia nazionale, polizia per strada a guerreggiare tra saccheggi e coprifuoco. In un motel un corpo per terra, riverso nel sangue: è quello di Carl, colpevole/innocente, sniper con scacciacani per stolida e rabbiosa finzione. Accanto a lui, sei neri e due bianche fermati dalla polizia: terrorizzati, le mani al muro, interrogati per scoprire una verità che non c’è e che comunque viene sottaciuta. Dietro di loro tre agenti che interrogano, urlano, terrorizzano, inscenano drammatiche esecuzioni assieme a un ufficiale della guardia nazionale. In mezzo a loro Melvin, un nero agente della sicurezza che sta lì, si fa semplicemente presente, sperando inutilmente di evitare l’inevitabile… Nell’Algiers Motel, durante l’interrogatorio mattanza della polizia, la scena è questa, un grumo di follia applicata al raziocinio di un’indagine a caldo, ovviamente impossibile.
Ed è tutto un gioco di sguardi, un equilibrio di azioni compiute a vista e di nefandezze perpetrate di svista. Le occhiate in scena non si contano, si inseguono, ognuno guarda l’altro per mantenere gli equilibri tra l’agire e il non agire, tra la verità e la finzione, tra il guardare e l’esser visti. C’è l’essere presenti in scena e il celare l’azione dietro la quinta di una porta, nel segreto di una stanza, l’esser costretti a fissare la parete e il voltare la testa da un’altra parte per non vedere… Il dramma è tutto lì e Kathryn Bigelow lo sa bene, infatti insiste sull’ubiquità della sua presenza, scavalcando il rapporto scenico tra l’attore e l’osservatore, insistendo su un continuo riflusso di razionalità in un evento in cui le emozioni (paura, rabbia, furore, indignazione) implodono, transitando da una parte all’altra. Altroché la strategia assassina contemplata e misurata a distanza di satellite di Zero Dark Thirty… Questo è un film costruito sull’incrocio di sguardi, sull’intreccio di osservatori, testimoni, indagatori, indagati. Ma, in tutto questo lavoro di sguardi, Detroit è anche un film che smaterializza il ruolo del testimone, dell’osservatore depositario della verità. La Bigelow fa sì che la scena del crimine sia letteralmente una scena, uno spazio in cui ogni player gioca il suo ruolo, si spinge in un vortice di finzione che smaterializza letteralmente la verità, la lascia sfumare nella rabbia che governa ogni cosa. La finzione è il principio assurdo ma assoluto che determina ogni cosa in Detroit: sono finti i colpi di pistola dello sniper dalla finestra dell’Algiers Motel, la mattanza della polizia che si svolgerà di conseguenza è la versione reale di quella inscenata poco prima dallo sniper per i suoi ospiti, i poliziotti fingono dietro la porta chiusa di uccidere i testimoni… Il dramma è una scena del crimine e il crimine è una messa in scena di un dramma scritto nelle dinamiche sociali, nelle radici di una storia antica, rappresentata dalla Bigelow nella bidimensionalità pittorica dell’incipit animato ispirandosi alla “Migration Series” dell’artista afro-americano Jacob Lawrence.
E anche quando non siamo sulla scena di un crimine, la strada di un riscatto impossibile per i neri passa per il palco di un teatro dove i Dramatics (appunto!) devono cantare per i bianchi, o per la scena di un tribunale dove devono testimoniare per una giuria ancora e sempre di bianchi… Sembra quasi che la Bigelow (e con lei Mark Boal, che continua a comporre i suoi film con gravità monumentale!) volesse inscrivere il suo film più bruciante, quello che più di tutti lavora nella carne viva dell’America, nella dimensione metaforica di una rappresentazione diffusa e assoluta, dove la verità relativa si incarna in player che non hanno scampo. E allora l’epilogo dedicato alla scelta di Larry di uscire di scena, di lasciare i Dramatics e ritirarsi a vita privata, cantando nel coro di una chiesa, diventa tanto più significativo quanto più sembra voler indicare per la Bigelow una fuga dalla scena, la possibilità di una separazione dell’uomo dal ruolo assegnatogli. In perfetta antitesi rispetto al destino senza vie d’uscita cui (si) consegnava nel finale di The Hurt Locker il sergente William James, fatalmente prigioniero del suo ruolo.