Un omaggio accorato, coloratissimo e pieno di sentimento alle donne, alle sue attrici e anche alle interpreti con cui Ferzan Özpetek avrebbe voluto lavorare, ma che per qualche ragione non ha potuto dirigere (e ora non è più possibile). Queste ultime – Mariangela Melato, Virna Lisi, Monica Vitti – sono oggetto di un tributo esplicito in calce a Diamanti, la quindicesima regia del turco naturalizzato italiano, alla maniera adottata da Pedro Almodóvar con Bette Davis, Gena Rowlands e Romy Schneider in Tutto su mia madre. È bello che ciò avvenga in un film corale, dal baricentro sfuggente, dove il noi prevale chiaramente e consapevolmente sull’io, bizzarramente romantico e (pre)potentemente al femminile. Non che nel cinema di Özpetek manchino figure femminili forti, intense o addirittura tortuosamente titaniche (come la manager Irene Ravelli/Barbora Bobulova in crisi spirituale in Cuore sacro); ma è inedita la determinazione con cui egli ricomprende tutto il genere in un abbraccio che coinvolge l’anima, ancor prima che il piano narrativo, anche se questo si rivela ad ogni modo aderente al proposito. Diamanti ha un avvio metacinematografico, sulla terrazza della casa di Özpetek stesso, dove il cineasta ha riunito intorno a un tavolo alcune delle attrici con cui lavora abitualmente e qualche volto nuovo, insieme una manciata di maschi destinati a ruoli secondari (tra cui Stefano Accorsi, Vinicio Marchioni, Edoardo Purgatori), per leggere insieme il copione di un film ambientato negli anni Settanta, in un atelier romano specializzato in costumi per cinema e teatro; elemento, quest’ultimo, che rimanda a dettagli autobiografici, considerato che da giovane aiuto-regista Özpetek frequentava un posto simile.
Fluidamente, entriamo nella storia delle titolari, le sorelle Alberta e Gabriella Canova (rispettivamente Luisa Ranieri e Jasmine Trinca, perfette in parte), e delle loro sarte, ricamatrici, modiste, stiratrici e collaboratrici varie, ciascuna con un carico di problemi personali a corredo. Un ambiente professionale caratterizzato (anche) attraverso i rumori e il vociare, oltre che dalla foga indotta dal rispetto delle scadenze, raccontato in un momento specifico, quando il gruppo è concentrato sulla commessa di una costumista premio Oscar (Vanessa Scalera, bravissima), che prevede di confezionare abiti per una pellicola firmata da un autore tanto rinomato quanto difficile da accontentare. Non mancano ansie e tensioni (interne o esterne), ma le donne della sartoria, proprietarie incluse, formano una sorta di grande famiglia in cui la sorellanza preziosamente solidale disinnesca rivalità e annienta egoismi, una condizione che le fa navigare sicure pure tra i capricci divistici di esimie rappresentanti del mondo dello spettacolo (Kasia Smutniak e Carla De Signoris). Sono d’altronde tutte loro (interpretate anche da Geppi Cucciari, Paola Minaccioni, da una sorprendente Mara Venier, Milena Vukotic, Anna Ferzetti, Aurora Giovinazzo, Sara Bosi,…) i diamanti del titolo, gemme inscalfibili – di purezza e valore inestimabili – sublimate nelle liriche dell’omonima canzone di Giorgia, cantautrice che è tornata a collaborare con il regista oltre vent’anni dopo l’ultima volta (allora sfoderò Gocce di memoria per La finestra di fronte, nel 2003). Versi che dicono: “Forse tornerà/La mia vita tornerà/Vestita di parole e saper vivere/E decidere/E quando arriverà/ Senza macchia e senza età/Di questa eternità saremo noi i diamanti”.
Con movimenti di macchina di avvolgente circolarità e un ritmo che placa la frenesia attraverso momenti più rilassati (come quelli conviviali), indugiando sui volti delle protagoniste per coglierne ogni sfumatura emotiva, Özpetek guarda all’universo femminile in maniera differente da come aveva fatto in precedenza. A volte con eccessi di retorica nei dialoghi; senza troppo curarsi di bilanciare lo spazio dei personaggi secondari, la cui gestione apparentemente anarchica funziona comunque a meraviglia; concedendosi alcune di quelle digressioni melodrammatiche che gli piacciono tremendamente: ma, di fatto, il girotondo procede con grazia intorno a un cuore pulsante condiviso, con effetti balsamici per i personaggi sullo schermo come per gli spettatori in sala. E pure la cornice che racchiude il film nel film, che resta la parte forse meno riuscita, consente a Özpetek – che nel finale va a ritroso e percorre gli ambienti di scena in cui avrebbe poi girato il film, quando ancora erano allo stato grezzo – un’eterea quanto efficace suggestione sulla magia del processo creativo e, di riflesso, del cinema.