Affonda le radici nell’immaginario più imprevedibile il primo film da regista di Alex Garland, scrittore e sceneggiatore da anni “al servizio” di Denny Boyle (sue sono le sceneggiature di The Beach, 28 giorni dopo e Sunshine). E non si tratta tanto del topos letterario e cinematografico dell’intelligenza artificiale in senso stretto, quanto di una modalità narrativa e di una tendenza dello sguardo che lambiscono l’horror, lo sfiorano, evocandone le figure più classice. Ecco perché fin dall’inizio Ex_Machina assomiglia così tanto a Nosferatu (quello herzoghiano prima di tutto), con il protagonista chiamato in una terra sconosciuta a compiere un lavoro quasi misterioso. Non una carrozza ma un elicottero lo porterà vicino alla tenuta del centro di ricerche del miliardario inventore del più importante motore di ricerca del mondo, ma dovrà raggiungere la casa sotterranea camminando lungo il fiume, perché nessun altro è autorizzato a penetrare tanto nella proprietà. Un cammino iniziatico, più per lo spettatore che per il personaggio, ovviamente, che vede susseguirsi alcun degli indicatori ricorrenti del genere: lo spaesamento, le inquadrature dal basso, il senso di oppressione della natura circostante, persino il ponticello che segna e oltrepassa il confine del modo reale con quello delle mille possibilità e insidie.
Caleb viene accolto dal suo ospite Nathan (e i nomi biblici non paiono scelti a caso) con cortesia, amicizia e mistero. Dormirà in una stanza senza finestre e avrà una card per aprire le sole porte in cui è amessa la sua presenza. Il suo compito sarà quello di testare l’efficienza del cervello elettronico inventato da Nathan, l’intelligenza artificiale per eccellenza, e stabilire se ha superato il test della perfezione. Da qui la vicenda si dipana attraverso una serie di rivoli interessanti e geniali, sul significato morale di una tale creazione, sui rischi che l’umanità può correre, sul futuro probabile che sta dietro la porta, ma anche sulla natura antica dell’animo umano, ancora ingenuo, violento, assetato d’amore e accecato dai sensi. Fino a che punto si può credere alle parole di un robot? Garland ci mostra come sia facile andare fino in fondo, candendo in tutti i tranelli disseminati sul cammino, anche se questi sono celati solo da vetri e monitor e dispositivi per la visione. Nonostante le sue capacità analitiche e critiche, il giovane protagonista proietta sulla bella Ava le sue fragilità, e si lascia illudere da lei, dall’apparenza della sua innocenza, senza mai pensare all’origine e alla ragione di tanta purezza. Cinema come macchina dello specchiamento e del mito, inteso proprio come congiunzione degli opposti. Tentazione e provocazione, dunque, nel parlare di noi e del nostro tempo in una specie di mondo altro, dominato dal progresso futuribile, che non è fantascienza (come non lo era quella di Moon di Duncan Jones), ma riorganizzazione di dati che ci appartengono qui e ora, grafico ragionato della superbia dell’uomo, che si paragona a Dio e trascura i segni della sua imperfezione. In questo caso il risultato non può essere che di malinconica sconfitta: l’uomo, che è stato capace di creare solo esseri che lo odiano e che hanno imparato dall’umanità soltanto sentimenti negativi, è destinato a morire o fallire, o meglio, a restare a guardare il processo veloce di umanizzazione della sua stessa invenzione. Che poi altro non è se non l’altra faccia del processo di disumanizzazione dell’uomo. Colpa dell’”inventore matto”, vendicativo e fuori di sé, come Rotwang in Metropolis, che ha fatto l’errore di confondere apparenza con essenza, l’immagine con il pensiero.