Nel quadro esposto in enorme profondità di campo, bianco e nero abbacinante di pozzanghere e selciati, i bambini figli di Yolanda, sembrano esporre, anzi azionare a perfezione il meccanismo espressivo di Lav Diaz: la riesumazione di oggetti ben definiti (una borsa con sopra stampato il marchio della Coca Cola, una scatola in polistirolo, una palla, ecc.) dalla massa indistinta di fango e ciarpame provocata dall’uragano. Figli dell’uragano è soprattutto una questione linguistica che si arricchisce se considerata in relazione agli ultimi due film di Lav Diaz, soprattutto The Woman Who Left che sviluppa una temporalità stringente, funzionale alla narrazione (per non far sentire il tempo e dare invece tempo di farsi alla carne, gli eventi dei personaggi) anziché alla contemplazione e proprio alla mappatura dell’inquadratura, presupposto di questo documentario: trae immagini a elevata definizione, in totale profondità di campo, dall’indistinta fanghiglia del visibile, facendone un poema atmosferico, della pioggia, dell’intriso; come dalla massa di lemmi generici, acqua, terra, aria, la scrittura ricava parole, aggettivazioni, specificazioni, senza cui non ci sarebbe opera. I bambini stanno acquattati sul terreno, su strati di fango, o sui parapetti dei ponti, e scavano o pescano con gli stecchi, le cose perdute e portate dai corsi d’acqua. I ponti sono muffosi, illividiti dall’acqua battente; le strade scalcinate, peste, ornate da una grande quantità di detriti, materassi, vegetazione estirpata alle radici, immondizia ossificata dall’azione dell’acqua, che traspaiono dai reticolati divisori e l’intrico dei fili, dei montanti storti, le grate, groviglio di ruggine e cemento, disposti disordinatamente sui marciapiedi per scandire l’ordine intrinseco, profondo, dell’inquadratura di Lav Diaz e allo stesso tempo la libertà della s-composizione, se sullo sfondo si scopre un bambino pienamente a fuoco e in armonia con la molteplicità di forme intorno, che continua le sue scorrerie o il setaccio delle chincaglie, accucciato sulle sue ossa alluvionate; come in una partitura da cui emerga a un tratto un singolo motivo che poi scopri essere completamente integrato con il corale, il grosso dell’armonia e viene sommerso dall’orchestra pur restando distinto. Si tratta del rapporto segreto tra i piani di questa immagine stratificata, profonda (i piani dentro un piano complesso): tra quello che è in primo piano, un bandone ritorto, un palo, un ricettacolo e quello che si dis-ordina in adiacenza e dietro, l’acciottolato, a sinistra una pozza argentina, poi cumuli, capanne, calcinacci, una donna che rovista, la punta degli alberi, cielo pastoso, cumuli.
Spostandosi verso il mare l’apocalisse è ancora più stupefacente: navi da carico arenate sulle coste, là dove prima erano i villaggi e ora si aggrappano agli scafi le tende, le baracche raggrumatesi intorno a queste nuove cattedrali e i ragazzi si riparano sotto le chiglie dopo lo scandaglio del fondale alla ricerca dei metalli. Sono state sbattute in mezzo all’asfalto dalle onde anomale e ora intessono la loro trama di segni (di spazi, pose all’interno del quadro) con i casamenti, gli spiazzi, poi soprattutto con il vuoto dell’acqua e del cielo lattiginosi tutt’intorno. Mentre il gallo canta e le rovine risuonano di un sopore di voci, rumori di lavoro, scrosci, strinature, un’eco di techno d’accatto, cominciano i tuffi a strapiombo dalle balaustre, fino a che, spariti i catasti e gli slarghi, i passaggi tra le lamiere, le travi e ogni traccia di ruralità, e rimasto solo un cargo nella calma dell’insenatura, la sequenza diviene sorda apnea, in uno dei più bei finali mai visti. Muto rallentamento dei bambini balzanti, sagome grigie in mezzo alla bianca astrazione del cielo e dell’acqua resa ancora più placida dalla pioggia. Il momento esatto in cui i segni, nella loro minuziosa identità, si scalcano ed escono dalla nebulosa dell'(in)esistente.