Chiusa la parentesi americana, Gabriele Muccino torna sui propri passi col tentativo di rielaborare i concetti di prigione e morte che avevano ampiamente connotato i suoi esordi. È funebre l’idea che sottende gran parte della sua filmografia sia quando mette in scena la fine biologica (causata da un male incurabile, un suicidio, un incidente), sia quando vuole riflettere sulla fine delle speranze, sulla rottura delle relazioni o sulla resa generazionale. Ma Gli anni più belli scoperchia in modo esplicito questa dialettica che genera il muccinismo, sostanza di cui si nutre da sempre il suo cinema fatto di tensioni, tradimenti, fallimenti, illusioni, sentimenti urlati e l’immancabile pacca sulle spalle consolatoria che tutto condona a tutti. Soprattutto con Gli anni più belli, il suo recente cinema sembra dichiarare che a essere morto è il senso del tempo, una percezione dalla quale nessuno può fuggire, un luogo-trappola truccato da rifugio, dentro al quale chi si nasconde poi soffoca.
Infatti al film manca respiro, è vittima proprio del tempo, dei suoi tranelli, della sua ciclicità, dei suoi continui ritorni: una morsa dalla quale lo sguardo di Muccino (che qui scrive insieme allo sceneggiatore Paolo Costella, come già in A casa tutti bene) sembra non voler smarcarsi per mantenere un punto di vista acritico, evitare così un reale e drammatico coinvolgimento, restare adagiato su una comoda soglia di osservazione. Dopo i trentenni (L’ultimo bacio) e i quarantenni (Baciami ancora), Muccino si fa cantore della generazione dei cinquantenni con la pretesa di interpretare senza lasciarsi realmente interpellare dalle inquietudini e dal malessere dei suoi personaggi e dalle loro vicende. Il tempo diventa così uno spettro, più che uno specchio, che rivela la sua vocazione moralistica («Le cicatrici sono il segno che è stata dura, il sorriso che ce l’abbiamo fatta», «Non fare mai compromessi, le cose devono andare bene per te, non per gli altri») ma anche la sua inconsistente memoria. Il vuoto delle immagini televisive ne è traccia, si fa presenza di questa assenza: utili per sintetizzare la storia – a ribadire che tutto rimane, tutto viene trasmesso, e che il potere scorre nella televisione, come già si scandiva in Ricordati di me – reitera il profondo senso di disagio che schiaccia la generazione di Giulio, Paolo, Riccardo e Gemma vittime di un’inadeguatezza, figli di un tempo che non si è assunto completamente le sue responsabilità (sembra insinuare molto sottovoce Muccino). Ma la furbizia di chi non vuole dispiacere a nessuno, cercando un’assoluzione («Alzi la mano chi non ha mai sbagliato» tiene a esclamare Gemma) e una rappacificazione col proprio passato, è così trasparente che tradisce un compiaciuto autobiografismo dal quale il regista sembra non riuscire a liberarsi.
Già nel precedente A casa tutti bene (2018) un’improvvisa mareggiata costringeva la carovana familiare a una convivenza forzata che sparigliava le carte, moltiplicava gli intrecci, alimentava i conflitti, generava ipocrisie, equivoci fomentando il caos e frantumando l’idilliaca armonia borghese rappresentata dalla coppia Sandrelli-Marescotti, vero bersaglio dell’intera operazione. Stereotipi superficiali e facili escamotage narrativi esclusi, A casa tutti bene avviava un discorso di riguardo nei confronti della migliore commedia all’italiana riallacciandosi all’idea di cinema monicelliana senza riuscire però a raggiungere né la cattiveria, né la compassione ma soltanto manifestando una spiccata ruffianeria di maniera che, di nuovo, accontentava e salvava tutti. Gli anni più belli segue quel solco amplificando ulteriormente il legame col passato e rievocando in modo calligrafico sia la struttura e la vicenda di C’eravamo tanto amati di Scola (che omaggia e cita in lungo e in largo ma Muccino precisa che non plagia), sia l’idea espressa da Una vita difficile di Risi. Ma, al di là dell’intenzione di mettere in scena il viaggio nella micro e macrostoria italiana, come è tipico nel suo stile, il racconto di Muccino non riannoda il senso di una storia collettiva, non si sottrae agli effetti più facili, prevedibilmente non si spoglia ma si carica, descrive, sottolinea, cerca la poesia ma si schianta nel simbolismo (o meglio, su un vetro), si prende sul serio, manca di autoironia, non suggerisce ma urla. Tutto viene urlato dal suo sfiancante modo di riprendere, così enfatico, sottolineato e sfacciato: un pianto, una nascita, l’amore, il sesso, un insulto, un addio, una fragilità. Urla anche quando abbozza il legame tra padri, padroni e patria senza riuscire a trarre una qualche, seppur parziale, conclusione. E l’urlo rade al suolo ogni minima concessione malinconica o amara. Anche la morte è urlata. Ed è proprio nella contraddittoria rappresentazione del morire, vera prigione per questo cinema, autentica trappola di questo sguardo-meccanismo, che ci si rende conto che il film inciampa rovinosamente e si mette in dubbio l’onestà nel voler raccontare in questo modo la vita.