Un’altra dichiarazione d’amore a un outsider. Donna per di più. Un’artista timida – forse repressa – ma capace di straordinari successi. Questo Tim Burton dichiara nelle interviste a proposito di Big Eyes. Altre confessioni, qualche tempo fa: il regista di Burbank raccontava che il tormento peggiore degli inizi, quando lavorava come animatore alla Disney,consisteva nel disegnare personaggi dai grandi occhi (come Red e Toby Nemiciamici) e che probabilmente proprio in quel periodo l’idea di dar vita, un giorno, a un personaggio dalle grandi orbite vuote cominciò a farsi strada. Jack Skellington è probabilmente l’anello mancante tra quelle “finestre dell’anima” oversize schizzate su commissione per lo Studio del topo e quelle che Margaret Keane dipingeva nei suoi ritratti di bambini malinconici tra gli anni ’50 e ’60. “Big eyes” che fecero sensazione, generarono un commento lusinghiero di Andy Warhol (a epigrafe nel film), l’attenzione di alcune star del tempo (Joan Crawford usò “un Keane” come copertina della sua autobiografia) e il disprezzo da parte della critica ufficiale (“un infinito di kitsch”). Era dal 2003, da Big Fish, che Burton non sceglieva la strada del racconto intimo. Forse per questo, dopo molte incursioni nel fantastico, per Big Eyes ritrova Scott Alexander e Larry Karaszewski con cui aveva scritto Ed Wood. Il peggior regista del mondo e la pittrice che fa inorridire i galleristi. Entrambi trattati con affetto (del resto, i due sceneggiatori erano riusciti anche a raccontare Larry Flint come un campione della libertà d’espressione) e, nel caso della Keane, lasciando decisamente aperta la questione del giudizio sulla sua opera. Insieme alla questione della riproducibilità tecnica, quello della linea di demarcazione tra arte buona e arte cattiva, è uno dei temi che a Burton sembrano interessare di più. E non da questo film.
La novità qui, forse, è l’incursione nel territorio in cui scatta la complicità tra servo e padrone: Margaret Ulbrich, una Amy Adams pigolante e con parrucca bionda cotonata, è una donna fragile. La incontriamo in fuga, insieme alla figlia Jane, da un sobborgo di villette a schiera (la fotocopia della culla di Edward mani di forbice) e da un primo marito che non vedremo mai. Era il 1958, non il più favorevole degli habitat per una madre single. Con pochi soldi e nessun piano, a Margaret resta poco altro da fare se non cercare un impiego da artigiana in una fabbrica di mobili e dar libero sfogo al proprio estro nei week end facendo ritratti ai bambini nei parchi per pochi dollari. Perciò, quando incontra il pittore della domenica Walter Keane – parlantina efficace e modi affabili, un passato da frequentatore dell’Ecole des Beaux Arts di Parigi da cui prende ispirazione per le sue dozzinali vedute di Montmartre -desiderosa com’è di una vita migliore, cede alle sue lusinghe.La favola nera che segue, con tanto di assedio da parte del drago (Christoph Waltz è pervaso da una energia quasi demoniaca) alla damigella indifesa, è coerentemente narrata da un cronista di gossip del San Francisco Examiner (Danny Huston). Fino all’epilogo, la scoperta della fama espropriata dal marito orco, consumato dal mito del proprio genio (il vero Keane dichiarò a Life: “Nessuno dipinge occhi come El Greco. E nessuno lo fa come Walter Keane”) e un finale hollywoodiano da courtroom drama.
Un’indagine condotta lungo il poroso confine tra arte e kitsch? Scontro di civiltà tra sensibilità populiste ed elitiste?E ancora, chi può vantare oggi la proprietà dell’opera, il solo creatore o il promotore ha qualche prerogativa? Margaret avrebbe mai raggiunto il successo senza Walter? E avrebbe mai aspirato all’emancipazione senza il fiancheggiamento di una comunità di Testimoni di Geova? Sono questioni che il film ci pone, sottotraccia, senza scendere mai in profondità. In una sceneggiatura che non brilla per sottigliezza la gabbia riservata all’artista prende allora la forma di un confessionale. Il posto di una donna è il focolare, non l’atelier.