La sonorità è una qualità del cinema che apparentemente gioca ai margini, ma in realtà può essere il vero punto focale di un film. È il caso di Sound of Metal, l’opera prima di Darius Marder prodotta da Derek Cianfrance, che però i fattori sonori se li gioca prevalentemente sul versante narrativo, lavorando sulla storia di un batterista che perde l’udito e si ritrova immerso nel mondo del silenzio, dal quale era sempre fuggito con la sua vita frenetica da musicista in perenne tournée. Diffuso su Prime Video, si tratta in realtà di un progetto lungo una decina d’anni, che in principio doveva essere un documentario di Derek Cianfrance dedicato ai Jucifer, un duo americano di sludge metal: Gazelle Amber Valentine e Edgar Livengood, compagni di vita e di musica, che dal 1993 attraversano l’America in camper, portando in tour i loro concerti a base di voce e chitarra (lei), batteria (lui) e tantissimi decibel. Il documentario di Cianfrance, che doveva intitolarsi Metalhead, era naufragato nel 2009, infrangendosi sul successo della doppietta romance (Blue Valentine e Come un tuono) infilata dal regista sulla carismatica figura dell’allora emergente Ryan Gosling, e lui stesso lo aveva affidato al suo sceneggiatore Darius Marder, rinunciando all’impianto documentario e trasformando i due musicisti reali nei personaggi di un dramma sentimentale basato sulla riedificazione di un amore a seguito dello sgretolarsi dell’elemento si cui si basa l’esistenza della coppia.
I Jucifer di Metalhead diventano così i Blackgammon di Sound of Metal, una band metal composta da Lou, che domina la scena con la sua energia a base di chitarra e voce, e da Ruben, il batterista che alle spalle della sua compagna porta il ritmo delle esibizioni. O almeno lo fa sino a quando una mattina si sveglia e si accorge di non sentire più: i medici gli dicono che il danno causato dai troppi decibel è irreversibile e che solo una costosa protesi acustica fissa può restituirgli la parvenza di un udito. L’impianto del film ruota tutto, dunque, sulla deprivazione cui il protagonista deve fare fronte, che non è solo quella acustica, pure altamente drammatica per un musicista, ma conseguentemente è anche quella esistenziale. Assieme all’udito Ruben sente di aver perso l’unione con la sua compagna Lou, che pure gli resta accanto e cerca di aiutarlo, una fusione basata sulla loro intesa musicale e sulla vita che avevano scelto di condurre insieme: un camper come casa con cui attraversare l’America in perenne tournée, il rapporto col pubblico dei loro concerti, l’armonia di coppia costruita su un’intesa esistenziale prima ancora che sentimentale. Lo schema corrisponde perfettamente alla poetica sviluppata da Cianfrance, che nel suo cinema ha sempre elaborato plot e personaggi in immersione su un mood esistenziale armonico e performativo. Ma Darius Marder preferisce giocare in sottrazione, asciugando la ridondanza delle situazioni e puntando piuttosto a rendere netto e ben distinguibile il dramma del protagonista. Che è un dramma dell’isolamento, l’improvviso ritrovarsi solo con se stesso di un uomo che ha costruito la propria relazione col mondo su un rapporto sonoro fatto di percussioni che tengono il ritmo per la sua compagna e per la sfera degli spettatori.
L’incapacità di accettare la ridefinizione di se stesso che gli propone Joe, il veterano di guerra sordo ex alcolista che accoglie Ruben nella sua comunità per non udenti e cerca di farlo adeguare alla sua nuova condizione, è per il protagonista il punto critico su cui il film costruisce la sua dinamica più completa, proprio perché lo spinge verso una forza centripeta basata su se stesso, in cui la scelta è tra la necessità di rapportarsi al silenzio e la possibilità di confrontarsi col mondo attraverso la parvenza di un suono meccanico, “metallico”, al quale bisogna abituarsi. Marder costruisce il suo film su questa asprezza, che diventa anche asprezza sonora, visto che la focalizzazione acustica è prevalentemente soggettiva, tesa a stare nella percezione alterata di Ruben. Sound of Metal cerca insomma di sviluppare una tensione narrativa che parta da una condizione sensoriale alterata, articolando adeguatamente gli aspetti tematici della vicenda e trovando un giusto equilibrio dinamico tra le spinte autodistruttive del protagonista (acuite dalla tossicodipendenza che ha superato) e la sua capacità di ricostruire un rapporto sia pure alterato con la realtà. La storia d’amore con Lou diventa lo specchio in cui tale riedificazione si riflette problematicamente ed è forse su questo versante la sceneggiatura (scritta da Darius Marder assieme al fratello Abraham) che poteva lavorare con più precisione. Il primo casting del film vedeva in cartellone Matthias Schoenaerts e Dakota Johnson, poi sostituiti da Riz Ahmed e Olivia Cooke, che comunque garantiscono al duetto tra Ruben e Lou una certa permeabilità emotiva e sentimentale.