Monos, dal greco “soli”, come i ragazzini del film del colombiano Alejandro Landes lanciato al Sundance e poi al Panorama della Berlinale dello scorso anno: una brigata di ragazzini soldato, sospesi tra infanzia e prima adolescenza, armi in mano, arroccati in un campo nella foresta amazzonica, posti al cuore di un conflitto che oppone una non meno specificata Organizzazione alle truppe regolari di un non meglio chiarito paese latino (per quanto evidente, Landes rimuove qualsiasi rimando diretto alla decennale guerra civile colombiana). Questi bambini armati sono astratti nel loro mondo di regole marziali, isolati nel loro regime che ribalta l’armonia dell’infanzia nella tensione oppositiva dell’età adulta, colti in una relazione impropria con l’improbabile coppia parentale incarnata dalla Dottoressa americana (Julianne Nicholson), che tengono in ostaggio per l’Organizzazione, e dal cosiddetto Mesaggero, un nerboruto soldato che periodicamente fa loro visita per addestrarli e impartire ordini. Tra loro i sentimenti circolano, la prima sensualità abbraccia i corpi, le corvée si alternano ai giochi… L’equilibrio si rompe quando, al culmine di una notte di festa, un colpo di fucile uccide per sbaglio la mucca avuta in custodia dall’Organizzazione e il giovane capo della brigata si spara per la vergogna. Il contrappeso dell’ordine infranto prende allora il sopravvento, incarnato da Bigfoot, il più cupo e irrequieto del gruppo, che porta la menzogna in quell’eden irregimentato, proponendo di mentire al Messaggero: a uccidere la Mucca è stato il loro capo, che poi per la vergogna s’è suicidato…
Ovvio che di qui in poi il film prenda la linea della narrazione del disequilibrio, il progressivo dissolversi dell’idillio rovesciato in cui vivevano questi ragazzi nel regno di menzogne, paure, tradimenti e fughe in cui si spingono, sempre più lontani dall’ombra dell’Organizzazione, dal controllo del padre Mesaggero e dalla ideale protezione garantita loro dal compito di accudire la madre Dottoressa. Monos si sviluppa allora come un tracciato che attraversa l’archetipo conradiano del “Cuore di tenebra” e del relativo transfert coppoliano, per toccare la miriade di rimandi (anche espliciti) alla letteratura e alla filmografia sui ragazzi selvaggi e irregimentati che vanno dal Signore delle mosche sino al recente (e sottovalutato) Jessica Forever della coppia francese Poggi-Vinel. Alejandro Landes lavora sulla sospensione del rapporto tra marzialità e innocenza, ovvero tra la dimensione organica e selvatica della natura in cui i ragazzi sono immersi e la dimensione inorganica, materiale e coercitiva imposta al gruppo dalla guerriglia. In questo contrasto la fisicità dirompente dell’adolescenza crea il contrappunto tra paura e desiderio (e il rimando kubrickiano non è certo gratuito…), tra la violenza contemplata tanto nella vertigine di libertà quanto nell’abisso della marzialità in cui i ragazzini son calati.
Il passaggio tra le forme tetragone del campo iniziale (addestramenti, mansioni, permessi, quasi un Beau Travail della Denis) e la deriva organica che coglie i ragazzini nella loro fuga nella foresta (tra Aguirre e Apocalypse Now) spinge il film in un dialogo costante tra le forme dell’ordine e l’istintualità dell’esistere, ancorandolo alla dimensione morale che coinvolge la rispondenza tra richiamo della coscienza e istinto di appartenenza in cui si dibattono questi bambini armati. Temi che appartengono di certo anche allo script di Alexis Dos Santos, cui si devono un paio di film tutt’altro che trascurabili come Letti sfatti e, ancor più, il precedente Glue. Il gruppo di giovani interpreti, quasi tutti non professionisti, ne costituisce la materia pulsante e la presenza scenica del newyorkese Moisés Arias (esordi da Disney Channel e poi un ruolo memorabile nell’ottimo The Kings of Summer di Jordan Vogt-Roberts) si impone per inquietante ambiguità sin da subito.