La doppia (e fruttuosa) identità nazionale della regista nata a Nazareth in Palestina, ma da genitori ebrei, costituisce forse quel non evidente corredo genetico del film, che però lo caratterizza e lo risolve. È forse questa duplice sensibilità della regista a permetterle di realizzare un film in Palestina, ad Haifa, evocando gli echi di uno scontro antico, ma radicando la sua storia dentro altri terreni, in quel male oscuro – direbbe Berto – che regola i destini e condiziona la quotidiana vita di relazione. Il male occidentale che cova dentro una insoddisfazione da benessere, qui si tinge di tinte solo appena più sfumate che si risolvono in una soffusa ironia che alleggerisce la storia che così leggera non è.
Waleed è uno scrittore in crisi, non ha ancora pubblicato nulla pur avendo lasciato da tempo il lavoro in banca. Ola, la moglie, è infermiera. Il nuovo vicino di casa, Jalal, è un tipo strano, amichevole, ma irritante e i suoi comportamenti arroganti lo qualificano da subito come un vicino molesto. Tra i due dopo gli scontri iniziali si creerà un rapporto solido fatto di una segreta complicità, di una amicizia schietta, ma anche ruvida. Forse tutto nasce dalla condivisione dei guai che li assillano: Waleed è depresso e non ha idee per la scrittura, Jalal è invece soffocato dai debiti e inseguito dai suoi creditori che non sono dei galantuomini. Nella Haifa moderna i loro due spiriti non hanno quindi modo di trovare pace.
È molto raro nel cinema uno studio così denso e attento di personaggi maschili, laddove il tema del loro rapporto diventa centrale insieme a quello, totalizzante, della loro psicologia. L’originale parabola che la regista ci propone con Mediterranean Fever mette in luce le debolezze maschili e l’incapacità di condividere le ansie, se non a costo di una violenza con sé stessi. È in questa sensibilità a sapere mostrare ciò che è sempre difficile mostrare, quelle intimità segrete, quelle incertezze che inducono alla fissità delle azioni, che forse si rivela con spiccata evidenza la componente femminile della regia, nella sapienza di un’orchestrazione minimale della storia che lascia spazio alle variazioni d’umore dei due protagonisti, a quella complicità ricercata che è essenzialmente condivisione di ansie. Maha Haj è vissuta all’incrocio di due culture che in fondo, sebbene con sguardi opposti, finiscono entrambe per giungere allo stesso risultato. È forse così che nasce questo film che prova a riflettere, a bassa voce, su un male esteso da Oriente a Occidente, a dare luogo a questa originale metafora di un diffuso male di vivere che, vedendo al centro quella maschilità propria di culture patriarcali, sembra scompaginare alcune certezze, demolire luoghi comuni e consolidate credenze. Un male che si fa metafora più ampia di un disagio palestinese che sembra serpeggiare silenzioso tra orgoglio e regole di convivenza.
È nella naturale debolezza dei caratteri dei due protagonisti, sebbene Jalal ostenti un machismo che in realtà non possiede, che trova il suo sviluppo questa commedia nera, il dramma a tinte sfocate, che sembra avviarsi alla fine quasi senza dolore, in quell’aura quasi allegorica connaturata al film, che sa tradurre la sottile angoscia del presente e del futuro in una quotidianità per nulla influenzata dal conflitto e che sembra scorrere sui soliti binari di una consuetudine conosciuta. Waleed e Jalal sviluppano la loro complicità dentro questo ambiente e dentro i rispettivi ambienti familiari del tutto corrispondenti a modelli consolidati. Ma entrambi provano a guarire la loro febbre mediterranea – malattia della quale sembra soffrire il figlio di Waleed, che in realtà semplicemente non sopportava la professoressa di geografia per un’offesa alla Palestina – che così come accade per il bambino è solo una malattia dello spirito, una reazione a qualcosa che si rifiuta. Appunto. Quel male oscuro che non ha confini e non ha patria, ma si estende a macchia d’olio senza sintomi evidenti, ma che covano, minacciosi e invisibili.