Abbandonata la deviazione di Morrison, dedicato alla sua (ben più nota) passione per la musica, Federico Zampaglione torna all’horror. Lo fa in modo evidentemente consapevole di ritrovare un pubblico che ormai lo identifica (anche) con il genere e che non cerca da lui particolari circospezioni. The Well è perciò diretto, esplicito sin dai presupposti, che vedono la giovane restauratrice Lisa prendere in carico il lavoro di far “tornare a splendere” un dipinto annerito dalla fuliggine di un incendio in una villa dell’hinterland laziale. Un modo per ribadire proprio la connessione con un percorso che va sgombrato dalle polveri del tempo, sia in termini di tradizione tutta italiana (facile il rimando allo stesso spunto su cui si apriva La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati) che ovviamente personale, senza dimenticare un po’ tutta la scena contemporanea (l’attrice è la Lauren LaVera di Terrifier 2). Il doppio binario narrativo che dall’incipit si dipana vede perciò il lavoro di Lisa sulle macabre visioni che emergono dal dipinto, affiancato alla triste sorte di un gruppo di giovani, preda di un orco che giornalmente li cede in pasto a una mostruosa creatura in un pozzo. L’eleganza del contesto gotico classico si affianca così a una componente più brutale, dove emerge il piacere del mostruoso caro all’autore. Il riferimento non è soltanto alle creature direttamente fantastiche, ma più in generale a un gusto per i corpi sformati che si traduce nella costante ricerca di caratteristi in grado di rendere maggiormente iconografico il lavoro sulla materia horror del film.
Dal filiforme e serpentino Nuot Arquint di Shadow, si passa così al corpulento orco di Lorenzo Renzi, sbilanciato nelle forme e nei movimenti, negli scatti isterici del volto, nel trucco da clown che sembra filiato dall’immaginario di un Rob Zombie in decadenza; ma soprattutto nella magnifica androginia di Melanie Gaydos, ovale calvo e dita lunghissime, già vista nel bel corto Saint Frankenstein del maverick Scooter McCrae. In mezzo una Claudia Gerini, già compagna e musa del regista, che conferma il coraggio di scelte non convenzionali, l’amore eclettico per i generi e una certa assonanza verso un cinema che lavora proprio sulla sostanza del corpo e della sua raffigurazione – si pensi anche ai suoi ruoli (e ai nuclei tematici) in film come La sconosciuta di Giuseppe Tornatore o Ammore e malavita dei Manetti Bros, via via risalendo fino alle collaborazioni brillanti con Carlo Verdone. Con loro, The Well costruisce una filiera di rimandi che elaborano il conflitto tra tempo e bellezza, tra la ricerca dell’eternità e la coazione a ripetere della violenza, ma anche tra differenti tipi di fascinazione: quella di Zampaglione è per i mostri che iscrivono la realtà in una sospensione temporale di stampo chiaramente fiabesco, in una dinamica fra alto e basso, fra la gran casa della strega e i bassifondi dove i mostri si sporcano con la carne grezza, in cui i secondi non sono necessariamente peggiori della prima. Lo dimostra un sorprendente finale in cui la realtà torna a esigere il suo tributo con il cinismo dei nostri tempi che non lasciano scampo alla bellezza dei mostri.
In mezzo c’è un racconto sgraziato perché troppo entusiasticamente votato al genere e ai suoi orpelli, con eccessivi indugi sui particolari splatter che minano il rimo della narrazione, ma che affascina per il divertimento contagioso che naturalmente traspare dal racconto e dalla sua messinscena. Che è al contempo basica nei pochi elementi utilizzati, ma non banale nello sguardo e nella sua coerenza anche con i precedenti lavori dello stesso Zampaglione. Il quale dal canto suo cerca i rimandi nobili con i capiscuola (il già citato Avati, ma anche un certo virtuosismo argentiano e certe atmosfere del tardo Lamberto Bava, si pensi a La casa dell’orco), ma si ritrova invece maggiormente nello spirito dell’appassionato che fa sul serio mentre si diverte nel gioco dell’orrore. Fra arti prostetici e trucchi che mantengono costante la ricerca di un punto prospettico comunque artigianale, spicca in particolare la stessa campagna promozionale, con i cinema invasi di simpatiche “vomit bag” preparatorie alle scene forti, secondo una modalità da William Castle d’annata. Non si può non apprezzare.