Il canovaccio è abbastanza pre-visto: c’è un gruppo di persone che viene invitato da un ricco personaggio, in questo caso Alfred Moretti, un genio della musica pop uscito dal suo isolamento dorato dopo trent’anni di silenzio, e che li raduna nel suo ranch perché ascoltino il nuovo album in anteprima. Nel mucchio c’è anche Ariel Ecton, giovane giornalista in piena gavetta e alla ricerca dell’occasione che le permetta di emergere, cosa non facile per lei che oltre a essere l’ultima arrivata è anche nera in una redazione a piena supremazia numerica (e culturale) bianca. Su questi presupposti, Mark Anthony Green costruisce il suo Opus, nuova produzione A24 presentata al Sundance e ora in sala dopo l’anteprima al Bif&st 2025 nella sezione Rosso di sera. A ispessire il racconto c’è il fatto che Green, regista nero qui all’esordio, ha un lungo trascorso nel giornalismo di moda e spettacolo, essendo stato per anni redattore di GQ Magazine, e quindi conosce bene i meccanismi di affabulazione propri dello showbiz e il culto della personalità che implacabilmente dagli stessi deriva. Di qui il parallelismo fra la spettacolazione dell’arte e la religiosità neopagana tipica dei nostri tempi privi di punti di riferimento (tema rilevante per lui che ha avuto una profonda educazione cattolica), ancor più se intinti nei temi etnici tipici del black horror. Così, se Moretti si offre quale corpo sacrificale sull’altare del successo per officiare il suo rito di rigenerazione sociale in salsa demoniaca, a contrastarlo c’è una giovane emarginata ma arrivista, che nell’opposizione dei ruoli è comunque capace di comprendere per prima la pericolosità del meccanismo in atto.
L’aspetto più interessante di un andamento comunque già scritto – e che proprio su questa pre-visione giocherà il ribaltamento prospettico del finale – è la trasversalità visiva che si viene a creare fra un’ambientazione contemporanea e lo sguardo del mondo perennemente rivolto indietro. Moretti non a caso è una scheggia di immaginario glam che allunga la sua ombra dagli anni Settanta di Elton John agli Ottanta di Prince, fino ai Novanta della musica techno. Allo stesso modo, un po’ tutto il film si adegua a questa sovrapposizione di epoche attraverso un’ambientazione contemporanea che guarda però anche alle comuni di Charles Manson, dunque al periodo tra la fine degli anni Sessanta e quei Settanta in cui si generò il filone cinematografico delle sette demoniache. Dall’altro versante, Ariel si presenta come un elemento pure fuori tempo, infagottata nei suoi maglioni old fashion e costretta nell’angolo di una differenziazione etnica tipica dell’America consolidata. Lo scontro temporale determina una sfasatura in cui si inserisce un perenne senso di alterità, incarnato tanto dalla quirkiness di Moretti (amplificata al massimo dal gigionismo di John Malkovich), quanto dal disagio di Ariel che la costringe in una perenne espressione attonita da thriller di Jordan Peele – un parallelo può anche essere tracciato con il recente Blink Twice di Zoe Kravitz, simile nell’impianto e che pure affronta il tema strategico della memoria.
In questo senso, Opus è qualcosa che va anche oltre quel Venera la tua stella ribadito dal sottotitolo italiano: più che la semplice requisitoria contro l’idolatria del successo, trae infatti la sua maggior forza dal modo in cui radiografa un mondo impastato nella confusione di un presente costretto a guardare sempre al passato. Una irrealtà che trova il suo entusiasmo solo negli idoli di un tempo ormai distante, puntualmente da riportare alla ribalta e poi da smontare. Il santone ha dunque bisogno della sua giovane adepta che gli si opponga per completare il proprio piano e il presente si nutre in modo vampiresco del passato per mantenersi coeso e poter guardare al futuro. Green ossequia questo coacervo di possibilità attraverso uno stile caldo nelle tinte e sinuoso nella messinscena, perennemente in bilico fra il mascheramento della rappresentazione e il suo ossequio. Dai (bellissimi) titoli di testa con gli spettatori al ralenti che sembrano un frammento di immaginario à la Lars von Trier (si pensi all’incipit di Antichrist), al teatro dei burattini con gli uomini-ratto, resta sempre dominante l’idea di un mondo-proscenio. Dopotutto, ce lo ha ricordato il Tarantino di C’era una volta a Hollywood, il ranch dei mansoniani era a sua volta un ex set cinematografico e tutto sembra perciò tornare nelle giuste caselle di un mosaico pure lasciato aperto dal finale. In questo senso non vale troppo la pena preoccuparsi della scarsa verosimiglianza della storia, che non è l’obiettivo più caro all’operazione, da interpretare maggiormente in ottica allegorica, anche se i meccanismi che smuove parlano direttamente alla realtà del nostro tempo.