Si presenta dichiaratamente con i connotati della fiaba, Astrid’s Saints, nuovo lungometraggio di Mariano Baino, che arriva a colmare un’attesa lunga poco più di trent’anni, quanti ne sono passati da quel Dark Waters che lo rivelò nel 1993. È infatti un racconto di ombre e sensazioni amplificate, iscritte nel dolore e nel tormento di una protagonista, Astrid, per il bambino che accudiva e che ha perso, e che la collega a sua volta a altre figure materne e sacre. Il film è tutto su di lei, su una performance totale cui dà corpo e anima Coralina Cataldi-Tassoni (anche autrice della sceneggiatura insieme allo stesso Baino), che vediamo disperarsi e maneggiare i cascami di quel rapporto interrotto dagli eventi, mentre si muove nello scenario suggestivo del piccolo borgo di Zungoli, al confine tra Campania e Puglia. Che Baino sia interessato a figure sempre al limitare di una soglia (tra i mondi terrestri e ultraterreni soprattutto) è d’altronde cosa nota a chi già conosceva il film precedente: se in quel caso si imboccava una strada più lineare e in consonanza con temi e iconografie dell’horror più classico, stavolta Astrid’s Saint sceglie una narrazione più introflessa, tesa non a caso al continuo tema dell’immersione: nel corpo, nella terra, nei passaggi labirintici e fra le pareti di roccia che diventano uno spazio embrionale, in cui la protagonista si richiude, mentre il dolore si amplifica e trova la sua sublimazione estatica/estetica.
Su questa traccia che resta costante nel corso della narrazione, Baino costruisce un poema visivo con perizia e gusto del particolare, giocando di contrappunto fra l’essenzialità del personaggio (capelli cortissimi, nessun trucco e una veste molto spartana) e gli angoli del suo microcosmo pieni di un bric-à-brac funzionale a esprimere una peculiare idea di mondo, quasi a misura infantile: è quello della sua mente, ancorata al rapporto con il bimbo scomparso, ai ricordi in cui continuare a raccontare fiabe, a spazzolare i capelli, a maneggiare specchietti, affidando i suoi pensieri esteriori solo a una madre che non vediamo mai, perennemente nascosta dietro una porta sbarrata (un’altra ombra?). Nel far questo, Baino corteggia naturalmente un bagaglio artistico e esperienziale che gli è proprio, derivante innanzitutto dalle radici partenopee, per un certo barocchismo ricercato nelle tinte, nei giochi visivi fra le zone in ombra e i punti di luce e negli scorci prediletti e per il rapporto fra il sacro e il pagano – Dark Waters, non a caso, era ambientato in un convento e qui l’iconografia religiosa ritorna nuovamente.
E poi ci sono i trascorsi nella videoarte, che rendono Astrid’s Saints un film-performance, slegato però dalla meccanicità che pure si potrebbe ritrovare nell’idea dell’installazione. Al contrario, pur nell’ermetismo un po’ criptico dello svolgimento, emerge una sincerità della messinscena, un amore per il personaggio e un piacere del fare cinema, del creare mondi che rende la visione un’esperienza appagante e a cui piace lasciarsi andare. L’immersione diventa così anche quella dello spettatore che si fida dei percorsi aperti da Baino e Cataldi-Tassoni, di cui segue i tornanti emotivi con partecipe empatia, in un afflato emozionale più che intellettuale. Si torna in tal modo un’ultima volta alla fiaba, alla sua capacità evocativa e al piacere del narrare, amplificato dalla consapevolezza dello sforzo produttivo che il film ha rappresentato: 11 anni dalla prima stesura della sceneggiatura alla realizzazione effettiva, con una prima intenzione di girare a New York (dove l’attrice è nata) per poi toccare anche la Francia o la Corea del Sud, fino al ritorno in Campania, con tanto di minaccia del Covid a pendere sull’inizio delle riprese, fino all’esito finale. Tutti avvenimenti che non fanno che rafforzare l’idea di un film-mondo in cui gettarsi a capofitto, come nel buio di quest’anima disperata, per trovare la luce. Presentato in anteprima a L’Estrange Festival di Parigi e in Italia al Busto Arsizio Film Festival.