Prima la nomination all’Oscar per il miglior cortometraggio con Just Before Lose Everything: quindi l’esordio nel lungometraggio per raccontare la storia di chi quel “tutto” ormai l’ha già perso davvero. Xavier Legrand non difetta certo di coerenza e il suo Jusqu’à la garde (L’affido, in Concorso) è il racconto di una separazione che è un continuo non ritrovarsi, una riflessione amara sull’identità di un padre e una madre destinati inevitabilmente a collidere con violenza. L’incipit in questo senso è già spiazzante: vediamo i due confrontarsi in tribunale proponendo visioni radicalmente opposte. Lei, Miriam, sostiene che lui, Antoine, sia un violento cui nemmeno i figli vogliono più rivolgere la parola, e invece l’uomo respinge le accuse, proponendosi come persona affidabile e innamorata della famiglia. Legrand lascia che l’ambiguità continui a serpeggiare per tutta la prima parte del racconto, apre il corpo della narrazione a innesti di vita vissuta che possono aggiungere sfumature, ma non contraddicono un quadro familiare sostanzialmente amaro e diviso, dove ogni personaggio sembra vivere sostanzialmente isolato. La direttrice resta la triangolazione padre-madre-Julien, ovvero il figlio minorenne: figura, quest’ultima, ondivaga, sballottata fra le pretese dell’una o dell’altra parte, fra la negazione di sé (la madre non risponde alle telefonate del padre e si nasconde durante i weekend in cui lui viene a prendere il ragazzo) e la voglia di non essere abbandonati (Antoine pretende con vigore di essere considerato ancora parte della famiglia).
Il quarto possibile punto prospettico, la figlia maggiorenne Josephine, è apparentemente esterna a questa dinamica, ma ne riflette in ogni caso le nevrosi e l’incapacità di agire: rappresenta, suo malgrado, l’evidenza di quella corruzione della purezza che sta giocando adesso una nuova partita sulla pelle del secondogenito e che su di lei ha già prodotto i suoi risultati. Si crea in questo modo un’efficace tensione sintetizzata dall’atteggiamento costantemente terrorizzato del piccolo Julien, e dalle continue domande cui i personaggi non forniscono risposte per procrastinare il più possibile il destino che hanno costruito e con il quale non riescono a fare i conti, generando così un volontario girare a vuoto. Legrand indaga con il necessario distacco, la regia disegna geometrie di sguardi che non si incrociano (Antoine urla invano al figlio perché lo guardi quando gli parla), crea dinamiche note, ma evita facili e risapute scappatoie emotive. Il gioco di attese e contraddizioni è amplificato dalle efficaci scelte attoriali: Denis Menochet (il padre) è un orco dallo sguardo vitreo, ma capace tanto di modi gentili quanto di improvvise esplosioni di collera; Léa Drucher (la madre) è una figura fragile ma nodosa, evidentemente scossa dagli eventi cui reagisce con impatto nevrotico; il piccolo Thomas Gioria (Julien) è un’ancora di purezza in questo modo scosso, ma con uno sguardo perennemente immalinconito dall’incedere immutabile e drammatico degli eventi. La costruzione di questo ricettacolo di paure trova compimento nella parte finale che sfocia nell’autentico horror familiare – e non stupisce che Legrand abbia tenuto Shining come punto di riferimento. L’ambiguità si scioglie riassegnando i ruoli che fin dall’inizio erano stati sotto gli occhi, ma la costruzione della tensione non è mitigata da una collisione di mondi che è ormai autentica messinscena della follia e del dolore. Le pulsioni di genere si mescolano così a una certa ruvidezza che rende realistica la messinscena e innalza il racconto di una singola famiglia a livelli più universali.