La diversa ironia della poetessa in Wild nights with Emily Dickinson, di Madeleine Olnek

A riprova di quanto sia complicato ricostruire un profilo della ottocentesca poetessa americana, ma antesignana di una scrittura carica di una modernità novecentesca, figura letteraria che, sebbene maturata in un clima progressista, rimaneva comunque ancorata, in una ricostruzione affidata alla suddivisione dei ruoli, ai modelli vittoriani, c’è il fatto che il film di Madeleine Olnek segue l’altro, in parte opposto e in parte non troppo dissimile, uscito nel 2016 per la regia di Terence Davies. Là dove A quiet passion con uno stile e un distacco carico di melodrammatica partecipazione ricostruiva il profilo strettamente poetico dell’autrice, con un’attenzione filologica e appassionata e quindi scientifica verso la parola e al suo stendersi sul verso con dentro i nascosti significanti di quella scrittura, i significati del film di Madeleine Olnek emergono con evidenza attraverso un uso nervoso del racconto, che, con tratti improvvisi e decisi, si sofferma sulla silenziosa, intima e costante rivolta di Emily Dickinson. Una rivolta che sembra trovare spazio non solo su un fronte più strettamente sessuale, ma che si manifestava caparbiamente anche in quella ribellione invisibile che derivava dall’opporsi ad una prestabilita eterodeterminazione dei ruoli. Un comportamento controcorrente che non solo ha di fatto compiuto attraverso la sua stessa vita, divenendo esempio e punto di riferimento per molti che, oltre ad apprezzarne i versi, hanno imparato ad amare anche il coraggio delle sue scelte, ma che nella scena ricostruita dalla regista è diventata istintiva pratica quotidiana.

 

 

In questa prospettiva le affinità/differenze tra i due film si rinvengono ancora nella non casuale appartenenza dei due registi alla comunità omosessuale, il che costituisce, probabilmente, una – non la sola – ragione di attenzione verso un personaggio che se nella poesia ha del gigantesco, resta anche un’icona del mondo della diversità sessuale, avendo caricato di sé e della sua natura, l’accesso ai suoi versi, il senso ultimo della sua poesia e anche i risvolti più celati della sua vita. È proprio rispetto a questi che si volge l’attenzione della regista americana per raccontare le segrete stanze nelle quali, nell’altrettanto segreto familiare, borghese, ma in un’ottica progressista, fiorì l’amore divenuto lungamente duraturo tra Emily e Susan, che poi divenne sua cognata per avere sposato il fratello Austin. Un amore durato fino alla prematura scomparsa della poetessa in un reciproco rapporto costruito su immutati sentimenti d’amore. La volontà di Madelein Olnek è soprattutto quella di restituire un’immagine di Emily Dickinson differente da quella che comunemente le si attribuisce e Molly Shannon, che dà volto al personaggio, conferendo alla sua Dickinson quella insistita caratterizzazione ironica, già sperimentata da Davies nel suo film, pur tra i risvolti di una immancabile malinconia che si stemperava nei versi. Ma ciò che soprattutto emerge da questa tratteggiata biografia e quel malcelato desiderio di farsi conoscere, di vedere pubblicate le sue poesie al di là di ogni ipotesi o racconto che la veda come refrattaria alla notorietà o timida verso quei componimenti notturni. L’andamento nervoso e a tratti tagliente del film che annega ogni frecciata verso le forme più o meno evidenti di emarginazione della sua poesia, si ammorbidisce in quella salvifica minima ironia che consente di accedere anche ad una rilettura del personaggio e questo aspetto assume un valore particolare quale effetto immediato della visione. Ma resta uno dei tratti più apprezzabili del complesso lavoro di scrittura. Un tratto che peraltro lavora su una certa pregevole ambiguità che permea il film. Se da una parte infatti, Wild nights with Emily Dickinson appare come l’ennesimo film che pone al centro un’eroina femminista ante litteram, aiutata peraltro dalla sua straordinaria creatività, è, invece, del tutto evidente l’altro profilo del film, che è quello di mostrare la segretezza del privato, ma soprattutto la silenziosa rivolta non solo della poetessa, con la sua vita controcorrente e con la sua determinazione a fare delle scrittura il lascito della sua vita, ma anche della coraggiosa Susan, sua eterna compagna contro ogni rito familiare, contro ogni ruolo materno e coniugale.

 

 

Wild nights with Emily Dickinson diventa, dunque, un lavoro ai fianchi rispetto ad un biografismo che ha voluto la poetessa americana vittima solitaria di una natura ombrosa, malinconica scrittrice di versi notturni che nella sua stanza/cella consumava le sue poche forze nella scrittura dei versi. Olnek ribalta queste prospettive e senza riscrivere la sua vita, fonda il suo film sul contenuto di quelle lettere che così contrastate avrebbero, invece, restituito al mondo un ritratto più nitido e più veritiero della sconosciuta Dickinson. È dunque con questa commedia/drammatica, come la definisce la stessa regista, che è possibile, da oggi in poi, ulteriormente confrontarsi per ridisegnare il profilo di Emily Dickinson. È per queste ragioni che i due recenti film che pongono al centro la figura di Dickinson rivelano la loro complementarietà, ma soprattutto la loro autonomia di pensiero e di messa in scena rispetto ad una consolidata corrente biografica che in tutt’altra forma e direzione ha raccontato la vita della scrittrice. Wild nights with Emily Dickinson, dopo e al pari di A quiet passion, regala a chi ama i versi della poetessa americana un biopic controcorrente, anzi in piena risalita, eliminando ogni pietistico e compassionevole atteggiamento e restituendo (entrambi i film) alla vita di Emily una solidità interiore, che derivava da una non comune forza caratteriale, che contrasta con ogni ricostruzione biografica che faccia emergere un profilo di debolezza, di fragilità del carattere, di adattamento ad una vita solitaria segnata dalla tristezza e dalla malinconia. Si tratta di una diversità di sguardo che assicura, ancora una volta, la necessità di salvaguardare un cinema indipendente ricco di vitalità e coraggio.

 

 

La tristezza piuttosto ci assale nell’assistere al trattamento che della sua vita fu fatto, dopo la sua morte dall’ambigua sua biografa Mabel Todd, che divenendo l’amante di Austin Dickinson, ebbe modo di avere accesso alle lettere che Emily scrisse durante tutta la vita a Susan. Senza alcun rispetto per la sua natura e per quell’amore così intenso e violentando lo spirito di quegli scritti che raccontavano l’amoroso rapporto tra le due donne, cancellò da ogni lettera il nome di Susan per evitare di dovere fare cenno alla storia d’amore lesbica, che sarebbe diventato argomento imbarazzante nei pur illuminati salotti e circoli letterari nei quali teneva le sue conversazioni spacciandosi come profonda conoscitrice della poetessa. Solo nel 1998, per fortuna, con l’ausilio dell’informatica si elaborò un software in grado di ricostruire la scrittura di Emily Dickinson, con un risarcimento che benché tardivo avrebbe restituito alla scrittrice americana lo spirito che era andato perduto e le intenzioni con le quali quelle righe erano state scritte. Laddove dunque il profilo di Emily Dickinson in Davies risulta essere ricostruito attraverso la puntigliosa qualità e aderente significato della parola come forma non banale di comunicazione, ma come senso profondo della manifestazione della sua interpretazione del mondo e quindi forma filosofica del suo senso, qui nel film della ancora (da noi) sconosciuta Olnek, Emily Dickinson ci viene proposta in questa veste più quotidiana pur facendo leva, entrambi i film, sulla chiave più segretamente ironica del personaggio. Resta l’amante appassionata, desiderosa di essere apprezzata e di vedere stampate su carta le sue poesie, ma solo undici opere videro la luce con lei in vita.