Le truppe tedesche stanno per entrare a Parigi. In città gli uomini si nascondono e chi può tenta la fuga. La merce più rara, in tempo di guerra, sono i documenti, i visti, gli imbarchi che consentirebbero di raggiungere il porto di Marsiglia e, nei casi più fortunati, salire su una nave verso la libertà. Georg è seduto in un caffè quando un amico gli propone di consegnare due preziosissimi visti di transito a uno scrittore e a sua moglie in cambio di una ricompensa e di un posto in macchina per lasciare la città. Georg accetta, ma nella stanza d’albergo dello scrittore trova solo la proprietaria intenta a cancellare le tracce di sangue di un recente suicidio. Georg rapidamente decide di rubare l’identità del morto e di mettersi in viaggio. Giunto a Marsiglia, stretto nel tempo interminabile di un’attesa che deciderà il suo futuro, Georg incontra un bambino, orfano inconsapevole di un suo compagno di fuga, e una misteriosa donna che lo ricollega all’identità fasulla con cui si maschera e che scompiglierà i suoi piani di espatrio.
Tratto da un romanzo di Anna Seghers (Visto di transito, pubblicato nel 1944, quasi in tempo reale), La donna dello scrittore – titolo italiano che traduce con tono impersonale il lapidario e significativo Transit originale – è una storia di sospensioni, di movimenti immobili, di pulsioni alla fuga sempre trattenute, inciampanti, zoppe. Georg è un man on the run che ha assunto un nome e una storia che non gli appartengono, che cerca di cancellarsi e di risorgere, incapace però di dare forma ai propri sentimenti. Apparentemente brusco e distaccato, si lascia ammaliare dai personaggi che incontra, dà una forma nuova a un universo sentimentale che sembrava aver rifiutato, mette a rischio la propria incolumità per perseguire una differente ipotesi di futuro: insomma, per riscrivere se stesso. Christian Petzold, che con il precedente Il segreto del mio volto affrontava la storia del secondo dopoguerra e l’impossibile reinserimento dei sopravvissuti con un tono mélo dai risvolti hitchcockiani, riscrive il tempo dell’occupazione nazista della Francia cristallizzandolo in un presente assoluto. Nessuna ricostruzione d’epoca, nessun infingimento di costumi o scenografie: a riempire lo schermo è l’oggi scarnificato di popoli in fuga e aguzzini, di migranti per forza braccati dalle forze dell’ordine. L’urgenza politica del presente si fa immagine e racconto, ribaltando un prevedibile impianto metaforico attraverso una messa in scena di vivida e commovente concretezza. Il limbo assoluto, la bolla in cui si muovono i personaggi, affamati di riconquistare – attraverso l’amore, il viaggio, la fuga, la libertà – un controllo sul proprio destino, è un tempo senza tempo, tangibile e tattile, impastato di lingue e genti diverse. Ma sarebbe sbagliato e limitante pensare al film di Petzold – che, sempre più chiaramente, si impone come uno dei registi fondamentali dell’Europa contemporanea – come a un trattato simbolico sulla fuga e sull’oppressione. Il senso profondo del film, che affianca e raddoppia quello politico, riguarda le possibilità e le responsabilità della creazione artistica, il fine ultimo del narrare. L’andamento labirintico (amplificato dalla voice over onnisciente che restituisce uniformità letteraria al magma frantumato della vita) è infatti quasi borgesiano nel suo svolgere e riannodare i fili del racconto, nel mostrare che c’è sempre una soluzione, possibile e inattesa, a ogni impasse, narrativa e reale.
Lo scrittore, quello scomparso e quello impersonato dal protagonista/impostore, hanno la possibilità (il dovere) di cambiare i destini dei personaggi, ne riscrivono la vita improvvisando incontri, aggiungendo e togliendo particolari, spingendo verso la salvezza o la perdizione, la vita o la morte. Quello di Petzold è un cinema che non ha paura di riflettere sui grandi temi (che, ontologicamente, riguardano tanto il passato quanto il presente) e che non ha paura di farlo mettendo sotto scacco il ruolo di chi quelle storie (e quella Storia) ha l’onere e l’onore di raccontare. Petzold lo fa senza ricorrere a mezzi intellettuali e stitici da metacinema: La donna dello scrittore è un film universale e babelico sulla fuga e sull’implacabile sensazione transitoria di ogni esistenza, ma è anche una riflessione amara, non arresa, sul potere potenzialmente infinito della creazione artistica, sul senso ultimo dell’affabulazione, sullo iato inafferrabile tra la percezione di sé, da reinventare ogni volta, e lo stretto imbuto del fato.