TRANSIT by CHRISTIAN PETZOLD Paris. Georg (Franz Rogowski) kann im letzten Moment seiner Verhaftung entgehen und gerät an die Papiere des toten Schriftstellers Weidel, dessen Identität er annimmt. Er flüchtet nach Südfrankreich, in der Hoffnung, dort auf politische Gesinnungsgenossen zu treffen. In Marseille lernt er Marie Weidel (Paula Beer) kennen, die dort seit Wochen auf ihren Mann wartet, nicht wissend, dass er nie wieder kommen wird. Die beiden Verlorenen beginnen eine leidenschaftliche Affäre. Aber für Marie steht im Gegensatz zu Georg fest: Sie will weg aus Marseille und in Südamerika ein neues Leben beginnen. Der Tag der Abfahrt des Schiffs naht, und Marie gibt die Hoffnung nicht auf, ihren Mann noch zu treffen. Von Minute zu Minute spitzt sich die politische Situation in Marseille weiter zu. Paul könnte den Platz von Maries Mann einnehmen, doch er zögert. Die Verwendung dieses Bildes ist für redaktionelle Zwecke honorarfrei. Veröffentlichung bitte unter Quellenangabe: CHRISTIAN SCHULZ / Schrammfilm / ZDF www.cs-christianschulz.de

La donna dello scrittore di Christian Petzold e l’oggi scarnificato di popoli in fuga

Le truppe tedesche stanno per entrare a Parigi. In città gli uomini si nascondono e chi può tenta la fuga. La merce più rara, in tempo di guerra, sono i documenti, i visti, gli imbarchi che consentirebbero di raggiungere il porto di Marsiglia e, nei casi più fortunati, salire su una nave verso la libertà. Georg è seduto in un caffè quando un amico gli propone di consegnare due preziosissimi visti di transito a uno scrittore e a sua moglie in cambio di una ricompensa e di un posto in macchina per lasciare la città. Georg accetta, ma nella stanza d’albergo dello scrittore trova solo la proprietaria intenta a cancellare le tracce di sangue di un recente suicidio. Georg rapidamente decide di rubare l’identità del morto e di mettersi in viaggio. Giunto a Marsiglia, stretto nel tempo interminabile di un’attesa che deciderà il suo futuro, Georg incontra un bambino, orfano inconsapevole di un suo compagno di fuga, e una misteriosa donna che lo ricollega all’identità fasulla con cui si maschera e che scompiglierà i suoi piani di espatrio.

Tratto da un romanzo di Anna Seghers (Visto di transito, pubblicato nel 1944, quasi in tempo reale), La donna dello scrittore – titolo italiano che traduce con tono impersonale il lapidario e significativo Transit originale – è una storia di sospensioni, di movimenti immobili, di pulsioni alla fuga sempre trattenute, inciampanti, zoppe. Georg è un man on the run che ha assunto un nome e una storia che non gli appartengono, che cerca di cancellarsi e di risorgere, incapace però di dare forma ai propri sentimenti. Apparentemente brusco e distaccato, si lascia ammaliare dai personaggi che incontra, dà una forma nuova a un universo sentimentale che sembrava aver rifiutato, mette a rischio la propria incolumità per perseguire una differente ipotesi di futuro: insomma, per riscrivere se stesso. Christian Petzold, che con il precedente Il segreto del mio volto affrontava la storia del secondo dopoguerra e l’impossibile reinserimento dei sopravvissuti con un tono mélo dai risvolti hitchcockiani, riscrive il tempo dell’occupazione nazista della Francia cristallizzandolo in un presente assoluto. Nessuna ricostruzione d’epoca, nessun infingimento di costumi o scenografie: a riempire lo schermo è l’oggi scarnificato di popoli in fuga e aguzzini, di migranti per forza braccati dalle forze dell’ordine. L’urgenza politica del presente si fa immagine e racconto, ribaltando un prevedibile impianto metaforico attraverso una messa in scena di vivida e commovente concretezza. Il limbo assoluto, la bolla in cui si muovono i personaggi, affamati di riconquistare – attraverso l’amore, il viaggio, la fuga, la libertà – un controllo sul proprio destino, è un tempo senza tempo, tangibile e tattile, impastato di lingue e genti diverse. Ma sarebbe sbagliato e limitante pensare al film di Petzold – che, sempre più chiaramente, si impone come uno dei registi fondamentali dell’Europa contemporanea – come a un trattato simbolico sulla fuga e sull’oppressione. Il senso profondo del film, che affianca e raddoppia quello politico, riguarda le possibilità e le responsabilità della creazione artistica, il fine ultimo del narrare. L’andamento labirintico (amplificato dalla voice over onnisciente che restituisce uniformità letteraria al magma frantumato della vita) è infatti quasi borgesiano nel suo svolgere e riannodare i fili del racconto, nel mostrare che c’è sempre una soluzione, possibile e inattesa, a ogni impasse, narrativa e reale.

Lo scrittore, quello scomparso e quello impersonato dal protagonista/impostore, hanno la possibilità (il dovere) di cambiare i destini dei personaggi, ne riscrivono la vita improvvisando incontri, aggiungendo e togliendo particolari, spingendo verso la salvezza o la perdizione, la vita o la morte. Quello di Petzold è un cinema che non ha paura di riflettere sui grandi temi (che, ontologicamente, riguardano tanto il passato quanto il presente) e che non ha paura di farlo mettendo sotto scacco il ruolo di chi quelle storie (e quella Storia) ha l’onere e l’onore di raccontare. Petzold lo fa senza ricorrere a mezzi intellettuali e stitici da metacinema: La donna dello scrittore è un film universale e babelico sulla fuga e sull’implacabile sensazione transitoria di ogni esistenza, ma è anche una riflessione amara, non arresa, sul potere potenzialmente infinito della creazione artistica, sul senso ultimo dell’affabulazione, sullo iato inafferrabile tra la percezione di sé, da reinventare ogni volta, e lo stretto imbuto del fato.