La pazza gioia, l’happy end e il cinema medio

81Esiste il “lieto fine” giusto e il “lieto fine” sbagliato. Cosa li distingue? I primi hanno la struttura della favola, nessuno crede che Cappuccetto Rosso possa essere salvata realmente dal cacciatore aprendo la pancia del Lupo. La realtà non ha lieto fine e il percorso narrativo porta diritto alla sua conclusione, tragica. Quando Fritz Lang difese l’happy end, che la produzione gli imponeva, spiegava che si trattava di una idea del Destino diversa. Per gli americani, e per l’uomo moderno, questo è nelle nostre mani. Sappiamo a cosa andiamo incontro e il doppio finale vuole dirci che possiamo prendere il nostro Destino tra le mani e cambiarlo. E sarà un’altra storia. Il giusto lieto fine si presenta quindi sempre come doppio finale, come nelle favole. Diversamente c’è un lieto fine “all’italiana” che vuole solo dimostrarci che siamo “brava gente”. Tutto si accomoda e lo sviluppo narrativo ci conduce gradatamente verso la soluzione. È il modello utilizzato ne La pazza gioia da Paolo Virzì e Francesca Archibugi, che ne firma con lui la sceneggiatura. Un film importante, di cui è bene discutere con rispetto. In primo luogo perché opera di un Maestro. E uso questo termine nella sua accezione originaria, perché Virzì si inquadra in quella tradizione di cinema “artigianale” così cara alla nostra migliore Scuola. Potremmo far risalire questa tradizione a colui che da molti viene considerato, a ragione, il padre del cinema italiano: Alessandro Blasetti.

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Alcuni di Blasetti hanno detto che si trattava di un “Autore suo malgrado”. Forse qui sta il nodo. Questa tradizione italiana del “buon artigianato” è sicuramente stata un modello per molte cinematografie nazionali prive di forza industriale. Al contempo, essendo capace di produrre quello che siamo soliti chiamare del “buon cinema medio” (in Italia la commedia all’italiana, per intenderci) è diventata anche un modello per quegli autori che dovevano fare i conti con una macchina industriale in cui la loro “firma” si sarebbe dileguata. Il cinema italiano è pieno di Maestri, “Autori loro malgrado”. A cominciare dal Dino Risi de Il sorpasso a cui sembra richiamarsi La pazza gioia. In quello mancava però il lieto fine. Ancora più evidente è l’ostentata citazione di un film paradigmatico del cinema come prodotto di massa, di perfetta fattura: Thelma & Louise. Anche qui mancava però il lieto fine. Anzi no. Fu girato e non a caso era davvero favolistico, molto più di Blade Runner. Non piaceva al regista e in questo caso la spuntò da subito lui. Per Blade Runner Ridley Scott dovrà aspettare la versione Director’s Cut per levarlo, ma in entrambi i casi, anche se ci fosse stato, sarebbe stato un doppio finale. Ed io resto affezionato al lieto fine di Blade Runner, mentre probabilmente avrei trovato sgradevole veder volare in paradiso Thelma e Louise. Resta da capire come mai dei “prodotti medi”, nel senso del mainstream e non della qualità, non sentano il bisogno del lieto fine e La Pazza Gioia sì? Avendo già detto quale “ideologia” nasconda questa “falsa coscienza” dei nostri migliori registi, la domanda è più cattiva: sono realmente figli di quel cinema “medio” che hanno scelto come modello? Perché questa malattia inizia con un capolavoro per amelioalcuni mancato: Il ladro di bambini di Gianni Amelio. Nel caso di Amelio, il finale tragico, giusto e necessario, del bambino che spara alla nuca il poliziotto a cui ormai pensiamo si sia affezionato, è probabilmente una scelta di “autorialità”, una rinuncia allo “spettacolo” che sentiamo nelle corde più minimaliste di Amelio. Se Il ladro di bambini avesse voluto aspirare ad essere prodotto più di massa, e quindi “medio”, avrebbe dovuto di certo mantenere questo finale. Ed io lo avrei preferito, ma questo conta poco. Non contesto, infatti, in sé la scelta “ideologica” di Virzì, ma la sua attuazione. Autori come Martin Scorsese, che del cinema medio italiano si sono nutriti, l’hanno fatto nel solco di quella tradizione autoriale che con i Cahiers du Cinéma vedevano nel cinema di genere e nelle pratiche basse la migliore lezione dei “cattivi maestri” per sfuggire alle maglie di un addomesticato cinema “di qualità”, privo di personalità.

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L’assenza di questa tradizione in Italia, paradossalmente, ha impedito e continua a impedire agli “eredi”, di quella grande stagione del cinema medio artigianale, di esserne oggi reali interpreti. Che dire? Potrei chiosare con un “prendete coraggio e siate spiacevoli!”. Resta comunque l’ammirazione per la fattura del film, la buona costruzione dei personaggi, il ringraziamento civico per aver reso omaggio ai tanti operatori sanitari della malattia mentale, ripagandoli con un film di sicuro grande successo del loro scarso apprezzamento sociale. Peccato che proprio per questo non si sia reso loro un buon servigio, nel descriverli come “santi votati alla causa”. Sono persone che soffrono e vivono come tutte noi. Anche per questo il lieto fine non ci voleva. Li ha trasformati in panacea collettiva per sentirci ancora una volta una nazione di “brava gente”. Troppo facile. Voglio chiudere con una nota positiva, il film se lo merita. Ho trovato straordinaria la sequenza dell’incontro sulla spiaggia tra madre e figlio, con tutto il contorno di storie secondarie. Una commozione magistralmente gestita tramite due personaggi secondari, i genitori adottivi, a cui segue un apparente gesto di solidarietà che invece è solo istinto di autodifesa e allarme. Per me il film finisce qui. Con un prurito sulla schiena che è la carezza notturna di un genitore perso, per sempre. Di nuovo la favola: Liliom. Paradiso e inferno insieme. Lieto fine sì, ma non sempre.