Parlano da sole le immagini mute che scorrono nell’incipit, consumate dagli anni che ci separano. Ci raccontano di un luogo e di una festa cittadina. La città è Cagliari, la festa è quella di Sant’Efisio, che il primo maggio di ogni anno, da immemorabile tempo, coinvolge la città, in un percorso che si snoda da Cagliari a Pula, per arrivare a Nora. Rondò final è firmato da Felice D’Agostino, Gaetano Crivaro regista calabrese, ma ormai naturalizzato sardo, e Margherita Pisano. Frutto, dunque, di una larga collaborazione che conferma una specie di collettivizzazione dell’idea, che ha coinvolto anche soggettività autoriali già consolidate come quella di Arturo Lavorato, che consideriamo comunque inseparabile da Felice D’Agostino per il loro lungo sodalizio artistico, ma anche ulteriori soggettività associative di lunga tradizione come la Cineteca Sarda e la Società Umanitaria, che rappresentano un preciso punto di riferimento per la diffusione capillare di quel cinema che unisce la qualità alla ricerca, ridefinendo l’intervento culturale come strumento di interpretazione delle contingenze della storia. È per queste ragioni che il film – di questo si tratta come si sottolinea nel godardiano incipit – risponde perfettamente alle esigenze di queste molteplici mani che lo hanno realizzato e nella sua unità ritroviamo gli spunti complessivi che animano il profilo di interesse che ciascuno di essi coltiva con l’amore per il cinema.
È pertanto in questo ordine di idee che va inserito Rondò final, in rassegna al prestigioso Festival di Nyon, Visons du réel, all’interno del quale perfettamente aderisce per la sua riconoscibilità attorno a una precisa ricerca di identità territoriale dal quale evidentemente nasce e che sa conservare e comunicare così come custodisce, restituendo loro vitalità, le immagini che lo compongono. Le immagini mute sembrano parlare da sole e lo sanno fare davvero trasmettendo, nella progressione cronologica della festa che raccontano, il legame nel quale l’intera collettività cagliaritana si riconosce. Rondò final diventa un film narrativo che sa raccontare, in un presente sempre più relativistico, il senso irrazionale della festa religiosa, il fideistico clamore dell’evento in cui cogliere non soltanto il sentimento di devozione, ma la necessità di una identità collettiva che si addensa attorno alla figura – fosse anche leggendaria – del santo. Una immutabilità consolidata e non removibile da nessun evento, regime o legge. Una immutabilità che sa farsi vera e visibile in quelle immagini che raccontano il tempo, sia che la processione cammini istituzionalizzata sotto le direttive di una regia occulta e onnipresente, sia che percorra, in un cammino che sembra venuto dal futuro, il suo tragitto sotto le luci fredde di una raffineria. Sovrapposizione di un reale che muta scenario, ma non cambia direzione, immagini nelle quali si può leggere l’impatto stridente tra fede e ragione, tra tradizione e innovazione, tra passato e futuro laddove le immagini sono invece coeve.
È da questa prospettiva che dal film emerge la componente antropologica, che sa però legarsi con perfetta sintonia, attraverso una lettura sempre attenta del montaggio come estetica fondante, ai temi più prettamente politici che costituiscono l’altra faccia del film, che sappiamo essere già in sé riconoscibile come atto politico. In questo senso il film che nasce da questa interpretazione delle due prospettive differenti, ma non opposte, diventa perfettamente aderente alle poetiche degli autori, consolidando per ciascuno il tragitto artistico e aumentandone i punti fuga. È così che Rondò final si atteggia come una ricerca sulla storia dei luoghi, quella sussurrata dalla voce fuori campo, che apre nuovi scenari a differenti sguardi sulla comunità e sulla conferma di un protagonismo culturale, contro ogni altra cultura dominante che dal passato al presente provano ad eroderla nei miraggi di una modernità razionale. Ma è quella voce, sono quelle parole a diventare forma precisa della fisionomia della collettività, voce quasi animistica che racconta il comune sentire e il senso di una devozione nella quale riconoscersi. È questo il tratto politico del film e la festa di Sant’Efisio rende possibile il manifestarsi di questa esigenza che muta con mutare del tempo, ma non cambia la propria natura. Non può sfuggire nella possibile molteplice lettura del film quella esposizione dell’accumulazione d’archivio, che attinge dalle immagini del cineoperatore amatoriale inesperto o da quelle del talentuoso filmaker, ma tutte insieme diventano prolungamento naturale della propria e dell’altrui memoria. È proprio in questa prosecuzione di un passato che resta vivo che le immagini possono anche restituire il reale del presente, in quella continuazione della rilettura della propria storia, nella ricerca caparbia di una propria identità, di cui ogni festa collettiva diventa necessaria manifestazione. Ciò che residua è proprio questo, la ricerca e la ridefinizione di una identità che muta aggiornandosi di anno in anno, ammodernandosi nel rimontaggio nuovo e contemporaneamente antico di quel passato già pronto per diventare presente e che, consapevolmente, prepara e già perpetua il futuro.