Dove eravamo rimasti? Al Texas di X – A Sexy Horror Story, con Maxine Minx unica sopravvissuta ai macabri scenari à la Tobe Hooper (si era nel 1979), che aveva eliminato Pearl (poi protagonista dell’apposito spin-off retrospettivo) per fuggire infine verso la sua personale strada del successo. In Maxxxine, terzo capitolo della trilogia ideata da Ti West, la tappa successiva è dunque la Los Angeles del 1985, dove l’attrice tenta il salto dal porno all’horror, forte di una nuova regista che intende realizzare un “film di serie B con ambizioni da serie A”. Ma Hollywood è una trappola dentro e fuori il set, dove le rivalità e i provini si mescolano alle imprese del serial killer The Night Stalker (ispirato a Richard Ramirez che effettivamente insanguinò Los Angeles in quegli anni) che sembrano legate a doppio filo ai fatti del Texas di qualche anno prima…Qualsiasi considerazione sul film non può naturalmente prescindere sia dalla visione d’insieme che la trilogia determina – non a caso qualche sala l’ha pure rilanciata con intelligenza in una maratona tematica – che dall’approccio stesso di West alla macchina cinema, improntato al ricalco visuale, in nome di un autentico neoclassicismo dell’horror, come avevamo già rilevato in passato. Più che lo smontaggio e la reinvenzione post moderna alla Quentin Tarantino, West è interessato a rivitalizzare un perduto godimento estetico/estatico dell’appassionato, una sorta di autentica lussuria horror. Il personaggio di Maxine diventa stavolta il viatico per questa riproposizione, con uno scenario anni Ottanta iperrealista, più autentico di quello reale e per questo inevitabilmente di finzione e fiction.
Una scelta che tiene insieme il doppio binario della rappresentazione e della sua esasperazione, con ovvi rimandi al filone slasher alla Maniac, galleggiando anche sul filo dell’auto-parodia, pure quando fa dannatamente sul serio. In ossequio a una tale visione, l’epoca filtrata dallo sguardo di Ti West è al contempo celebrativa e demistificatoria: la sua Los Angeles è tanto affascinante e in grado di titillare i desideri nostalgici, quanto è cupissima e truce, abitata da figure inquiete che traggono linfa dai fatti reali e abbastanza rimossi dalla memoria selettiva globale. Alla coolness estetica si contrappongono perciò la Reaganomics, le volontà repressive della lobby conservatrice Moral Majority (che in quel Presidente trovò il suo campione), il Satanic Panic, la lista Filthy Fifteen del Parents Music Resource Center con i brani musicali contrari alla morale e, naturalmente, il dilagare della pornografia nell’home video e nelle zone dei peep show. In questo mondo che ricerca e censura al contempo il proibito, tutto è perciò abitato da personaggi sempre doppi, che fingono anche nella vita reale, poliziotti che hanno sognato di recitare, agenti delle star e investigatori che sono anche dei criminali, registi di malcelata ambizione, fino ai set che rivisitano location celeberrime come la casa di Psycho – film cui lo stesso West è dichiaratamente molto legato. Sono loro a descrivere la maps to the stars con cui Maxxxine getta il suo sguardo cinicamente compiaciuto ma al contempo caustico e poco conciliante verso Hollywood, le sue dinamiche di ambizione sfrenata e di apparente fratellanza tra attori, in realtà focalizzati unicamente su sé stessi.
West le lega a un altro nucleo tematico della sua filmografia, il culto religioso che conduce alla perdizione – si ripensi a House of the Devil o The Sacrament. Quanto segue va considerato in certa misura SPOILER: il crescendo narrativo non può dunque che portare a un rituale satanico che si officia su una delle ville tra le colline hollywoodiane, proprio sotto l’iconica insegna della mecca del cinema – e qui può tornare davvero un paragone con Tarantino e il finale di C’era una volta a Hollywood. Quella che lì era però espiazione delle colpe di una generazione è stavolta rovesciata nel segno della perdizione, ovvero del successo. Rick Dalton non trovava necessariamente la sua occasione fermando la Manson Family, cosa che invece accadrà a Maxine, che dimostra di essere perfettamente consustanziale al gioco di una realtà che è già la sua finzione, dove chi persegue questa strada con cinismo troverà comunque la propria soddisfazione. In questo ritrova ancor più senso il paragone fra i due personaggi femminili del primo film, entrambi interpretati da Mia Goth: da un lato Maxine, la giovane attrice pronta a tutto pur di diventare star, dall’altro l’anziana e folle Pearl che coltivava lo stesso sogno senza riuscirsi, con entrambe che concludono il percorso uccidendo chi si frappone nel mezzo (e la vecchia non a caso ammoniva la giovane: “diventerai come me!”). La bravura di West sta nell’averci portato con sagacia a empatizzare per entrambe, rendendo attori anche noi di questo irresistibile gioco di ossessioni e follie.