Mimesi del corpo: X – A Sexy Horror Story, di Ti West

Arriva in Italia sull’onda dell’ottimo riscontro già riscosso all’estero, questo X – A Sexy Horror Story, che possiamo considerare l’apripista di una saga, considerata la lavorazione già in corso di un prequel. Il viaggio dei giovani protagonisti alla ricerca di una location dove girare il proprio film, riflette in un certo qual modo quello dello stesso Ti West lungo le coordinate del genere horror, che l’autore del Delaware sta portando avanti fin dagli esordi. Se The Roost era infatti un tentativo di riproporre certe formule anni Sessanta (con tanto di host a fare da tramite con lo spettatore), soprattutto House of the Devil aveva rivelato un nome che nel ricalco estetico – in quel caso dei film di case stregate e demonologie assortite degli anni Settanta – trovava una sua peculiare ragione d’essere. L’approdo stavolta è quindi nei Seventies della provincia redneck americana, dove i personaggi si stabiliscono per effettuare le loro riprese, attratti dal contesto rurale in riva al lago di una fattoria di proprietà della più classica coppia di anziani, apparentemente innocui ma in realtà non troppo raccomandabili. Il che fornisce il pretesto per la rievocazione di un contesto “american (horror) gothic”, con tanto di inquadrature riprese puntualmente da Non aprite quella porta o incursioni di alligatori che rimandano a Quel motel vicino alla palude – peraltro in una delle sequenze più riuscite e tese del film, un piccolo gioiello di suspense. Stabilito il setting, la dinamica dei rispecchiamenti si espande attraverso una dimensione metanarrativa, esplicitata dalla stratificazione creata dal film nel film, con la troupe che mette in scena la sua pellicola.

 

 

Il fatto che l’opera in questione sia un porno, apre però nuovi significati di senso nella dinamica del corpo come modello identitario su cui lo stesso cinema horror ha da sempre articolato le proprie istanze. Se infatti lo slasher è per antonomasia cinema della punizione del sesso, West lo ribalta in viatico per una riflessione sul desiderio della carne e del vigore dei sensi. Il che significa che la lotta sta fra l’affermazione del sé che la protagonista Maxine intende avvalorare attraverso il porno e la propria sessualità, e la repressione attuata dalla famiglia redneck, che però non è tanto punitiva quanto frutto della bramosia per quella vitalità della carne ormai perduta. Un discorso di mimesi non dissimile da quanto compiuto da Jordan Peele con il confronto tra comunità bianca e nera in Scappa: la dimostrazione, cioè, di come i meccanismi di sopraffazione reciproca non siano più soltanto figli di una volontà suprematista, quanto di un tentativo di cooptare le istanze altrui in una dinamica camaleontica e assimilatrice – e in questo senso viene in mente anche quanto un film come La Cosa di John Carpenter sia stato profetico e sagace nel capire in anticipo una tale deriva. West esplicita questo tema proprio attraverso il “doppio corpo” di Mia Goth, che oltre a Maxime interpreta anche l’anziana Pearl, creando una vertigine percettiva che sta tra la sessualità esplicita e consapevole dell’una e quella decaduta eppure ancora indomita dell’altra.

 

 

Il discorso è ispessito anche dalle prospettive trasversali che entrambi i personaggi recano in dote. Maxime, infatti, esibisce il corpo con orgoglio, ma anche con il cinismo di chi ha capito come lo stesso sia merce di scambio ideale per una società dello spettacolo affamata di sensazioni forti e in grado perciò di elargire il successo a chi si “vende” alle sue regole. Prova ne sia l’affilato scambio di battute con Jenna Ortega/Lorraine che, arrivata sul set come fidanzata e aiuto del regista, decide di passare davanti alla macchina da presa, preda dell’euforia per l’esibizione del nudo vista in chiave liberatoria e anti-repressiva, lei che è generalmente considerata una “brava ragazza”. Il desiderio lascivo di Pearl, con quell’aspetto fragile che diventa però l’involucro di una predatrice, rappresenta dunque l’ultimo stadio di un meccanismo articolato, che inizia e finisce sul corpo, terreno di scambio e conquista alternativamente da guardare, conquistare, filmare e in ultima istanza vivere. Il passaggio tra i vari livelli di “realtà” (la finzione del set, la concretezza del contesto rurale, la casa-trappola) e il gioco delle maschere tra personaggi veri, doppi di celluloide e anziani interpretati da attori giovani e truccati, conferisce all’insieme una complessità e una sofisticazione che allo stesso tempo esalta e supera il gioco di mimesi con l’estetica dell’horror anni Settanta. Modelli e epigoni, predatori e prede, dominati e padroni del proprio destino si mescolano e confondono, in un gioco dei ruoli al contempo tradizionale e spiazzante. Il risultato è un film che diverte e appassiona come uno slasher d’epoca, ma ne rinnova lo sguardo sul mondo con un approccio smaliziato e consapevole che lo affranca dal semplice esercizio di stile. E che nel dare il ruolo della final girl alla ragazza che fa sesso (e non alla vergine) compie la sua più chiara scelta di campo.