Oggetto curioso e indefinibile Ghost tropic, film del regista belga Bas Devos, in concorso al Bergamo Film Meeting, essenzialmente legato al tempo, al suo magnifico vuoto da riempire, al suo attraversamento che diventa piacevole forma inaspettata di una diversa vitalità. Con la sua molteplice interpretazione il film sa anche diventare riflessione sull’utilità di ogni (inutile) occasione e sul recupero di una smarrita umanità. Sa essere esperimento visivo per uno sguardo contemplativo e quasi pittorico sulla sfuggente temporalità metropolitana notturna e parentesi quasi onirica in mezzo alla consueta quotidianità. In un time lapse iniziale la macchina da presa, assolutamente immobile, inquadra in campo medio una stanza nella quale lentamente la piena luce che la pervade lascia il posto ad un lento imbrunirsi che diventa piena oscurità. Prende avvio quindi la storia di Khadija, che lavora in una società di pulizie. Il lavoro nel grande edificio finisce a notte fonda e lei deve tornare a casa. Sulla metro si addormenta, scende al capolinea e non sa come tornare a casa. Non ha soldi per il taxi e comincia a camminare nella notte della metropoli. La sua piccola odissea notturna la porterà a contatto con una umanità invisibile durante il giorno: il barbone ammalato con il suo cane, la squadra dell’ambulanza, la donna dello snack bar, gli infermieri del turno di notte dell’ospedale dove il barbone era stato ricoverato.
Devos sembra quasi portare per mano la sua Khadija, personaggio gentile e disponibile, in questo percorso quasi avventuroso nel cuore della notte. E Khadija sembra attraversarlo questo tempo, con il suo sguardo che si identifica con la macchina da presa, che regge molto bene la sua fissità di ricerca e la sua capacità di cogliere i colori delle luci per originali scorci visivi notturni dominati dai colori artificiali della illuminazione. È in questo silenzio, riprodotto da quello notturno, che il film di Devos cresce di spessore riuscendo a cogliere una essenziale e proficua solitudine del suo personaggio, che proprio in quella occasionalità solitaria sa trovare con la sua disarmante sincerità un rapporto immediato con gli altri che si adoperano per darle una mano: il vigilante, l’infermiera in ospedale, la donna dello snack bar, ma in fondo anche il ragazzo dell’ambulanza. È in questa ottica che Khadija esprime la sua spontanea solidarietà nei confronti del barbone che trova agonizzante sul marciapiede e che poi andrà a trovare in ospedale. Devos lavora, dunque, su due fronti: da una parte l’esile vicenda notturna della sua protagonista, ma dall’altra, quasi necessariamente, sul tempo che diventa perfino espediente narrativo, struttura portante dell’intera vicenda. Quel tempo che sembra potere toccare nelle lente carrellate in avanti della macchina da presa, che funzionano da impossessamento di una visione occlusa alla luce del giorno e che solo la notte sa e può restituire, ma anche come clessidra di un tempo apparentemente infinito, quello di certe notti trascorse in bianco. Devos sa creare la dimensione notturna della visione, immersa in quel tempo dilatato che il buio sembra trasformare. Khadija diventa una guida, in questa labirintica e fantasmatica vita notturna, una guida smarrita anch’essa che sogna una spiaggia tropicale per la figlia, che sfugge al suo controllo. Ghost tropic è quindi un film sul tempo e sul suo scandaglio cinematografico, ma anche racconto introspettivo in cui le immagini diventano un valore aggiunto e, oltre alla semplice descrizione degli scarni eventi, sanno andare a fondo e raccontare quel non detto che resta fuori dal testo, con un suo costante rigore formale, estraendo da quelle immagini ogni possibile scoperta. È così che Ghost tropic dalla superficie delle cose sa andare più nel profondo, tanto da riuscire a farci leggere anche i desideri inespressi di Khadija, la sua vita sconosciuta e segreta. Quando la stanza dell’incipit si colorerà di nuovo della luce del giorno, Khadija sarà forse di nuovo al lavoro e il tempo continuerà a scorrere, indifferente, sulle vite di tutti noi.