Coincidenze. In concorso al Trento Film Festival due film che traggono ispirazione dallo stesso – o, meglio, simile – soggetto: i cambiamenti climatici che ri-configurano il pianeta, lo scioglimento e la sparizione dei ghiacciai. Tra il Kazakistan e la Cina come in Bolivia. Sul Tuyuk-Su, a 3500 metri, come sul Chacaltaya, a oltre 5000 metri sul livello del mare, dove l’aria è così pura e l’ossigeno rarefatto da mettere a rischio la respirazione di chi non è abituato (i turisti che vi giungono con i pullman) a vivere a quelle altitudini. Sul primo si inerpica il lituano Audrius Stonys, autore di Woman and the Glacier. Sul secondo, il belga Pieter Van Eecke, regista di Samuel in the Clouds (vincitore della 65ª edizione del festival). Le analogie finiscono qui. Allo sguardo silenzioso e in ascolto di Stonys, monumentale e intimo, che chiede allo spettatore la complicità di un occhio r/esistente, si sostituisce quello più conciliante di Van Eecke, portatore di una visione meno radicale, di una poetica didattica che prende per mano lasciando pochi spiragli all’immaginazione, alle immagini di espandersi.
Così, le prime inquadrature – che sembrano provenire da un luogo fantasma, da una terra innevata e nebbiosa nella quale si aggira la sagoma di uno sciatore e dove poi appaiono come dal nulla persone in abiti tradizionali per mettere in scena il rituale di una festa popolare – lasciano quasi subito posto a scene che andranno a comporre il ritratto di un ambiente, di chi lo ha da sempre vissuto e abitato (Samuel) e di chi lo lambisce con una permanenza variabile (le comitive in gita, gli scienziati nel laboratorio di ricerca), aderendo allo stile del documentario che descrive con professionalità una persona, resa personaggio forte, e quella dello spazio che la circonda, denso di memorie per chi, come Samuel, non si è mai allontanato da lì. La Paz è lontana dal monte Chacaltaya, che in anni ormai lontani era sede di una rinomata stazione sciistica. Samuel faceva il manovratore degli skilift, aveva imparato il mestiere dal padre – la cui morte,anch’essa distante nel tempo, è ancora oggi negli occhi del figlio, che lo trovò cadavere, caduto in un burrone vicino alla casa, costruita in cima alle rocce (come un’abitazione uscita da una favola o da un horror). Di quel passato rimangono detriti: la cabina del manovratore, gli attrezzi, l’impianto di salita, la discesa… Tutto è in crisi perché i ghiacciai si stanno ritirando e non nevica più. Su questa traccia principale (la migliore, caratterizzata dalla presenza di Samuel colto nei momenti di solitudine e riflessione) Van Eecke inserisce altri percorsi meno convincenti, inserti per accennare argomenti senza strutturarli (la miniera, le elezioni presidenziali, lo scienziato che raccoglie campioni d’aria…). Alla fine, ricollegandosi all’inizio, riecco, non più nella nebbia ma nel sole, i pali, i fili, la ruota dell’impianto di sci. Oggetti con cui ora giocare, divertirsi, mimando il volo di un uccello, dicendo anche con quei gesti l’impossibilità di staccarsi, nonostante tutto, da quel rifugio al confine tra terra e cielo. E nuvole.