L’America un passo avanti al proprio tempo: A Complete Unknown di James Mangold

New York, all’alba degli anni Sessanta. È lì che arriva dal nevoso Minnesota, imbracciando una chitarra come un’arma, un ragazzo apparentemente mite, con una manciata di canzoni tradizionali folk nel repertorio e una necessità di dire e raccontare cose ancora tutte da determinare. Bob Dylan non è un mistero. O, meglio, è un mistero perché tutto quel che ha detto e ha fatto – tanto, tantissimo – vale come testimonianza ma è tutto e il contrario di tutto. È proprio questo che James Mangold, nel suo raffinato e popolare A Complete Unknown, sembra riuscire a cogliere, pur restando negli schemi di una collaudata classicità. A Complete Unknown accompagna Dylan dal primo assaggio newyorchese, cappellino in testa, pochi accordi e una voglia di emergere frenata da un carattere non disposto a compromessi, fino al suo più celebre momento di rottura: la svolta elettrica calata tra lanci di ortaggi, insulti e istantanee approvazioni del Festival Folk di Newport del 1965. Una manciata di anni che hanno fatto, volenti o nolenti, la storia della musica popolare del Secolo Venti. James Mangold racconta con partecipazione l’ascesa e la (parziale, momentanea) caduta di un genio. Ne tratteggia asperità e insicurezze, esalta genialità ed esplosioni creative senza santificare ma piuttosto sottolineando le contraddizioni di un’anima, certo superiore, ma altrettanto certamente in pena. L’arco temporale, racchiuso in pochi anni, è però sufficiente per tracciare un percorso a tratti imperscrutabile della parabola dylaniana.

 

 
Bobby, come tutti lo chiamano, in un crescendo che sembra infastidire il nostro protagonista, arriva a New York con una chitarra e una custodia di buone intenzioni. Il suo sogno è incontrare Woody Guthrie, idolo incontrastato finito in un letto lercio di un ospedale psichiatrico. La chitarra di Guthrie “uccide i fascisti”, ma non è questo smaccato coté ideologico ad affascinare il giovane Dylan, quanto la capacità di Guthrie di raccontare le strade nuove di un’America marginale. Un novello John Steinbeck armato di tre accordi capaci di cambiare la narrazione di un intero paese, ruolo che Bob non tarderà ad assumere. Dylan assorbe quella lezione; si fa accompagnare da un’altra leggenda folk – Pete Seeger – utile per scardinare le porte di una società sul continuo baratro di cambiamento per entrare nel giro giusto e sabotarlo dall’interno. A Complete Unknown, in realtà, racconta proprio quel punto di contemporaneo disequilibrio: Mangold ci presenta la storia di un uomo giusto nel posto giusto ma che presto si trasforma in un uomo giusto che viaggia parallelo al suo tempo e che è stato capace infine (e non senza dolore) di liberarsene. Dylan, in questa versione di Mangold, rappresenta un’America marginale, un passo avanti al proprio tempo e per questo condannato a una momentanea incomprensione. A un fallimento che però fa già intravedere la ragione che verrà. Dylan è un uomo che attraversa il suo tempo, lo mastica e lo digerisce, rendendolo migliore. È un interprete puro della propria contemporaneità, capace di coglierne i punti di rottura.

 

 
Timothée Chalamet, in un’interpretazione mimetica quanto sottile, abbandona le mossette da idolo giovanile per incarnare con piglio deciso e commovente dedizione la complessità della figura più rilevante degli ultimi settant’anni di cultura americana, rimettendo in gioco la voce, le mosse, la postura, il particolare modo di suonare. Si passa dalle serate nei fumosi locali del Greenwich Village alle provocazioni culturali dell’elettrificazione live di un folk che, nella mente sempre progressiva di Dylan, non poteva morire sacrificandosi a sé stesso ma doveva rinnovarsi per trovare un senso nuovo. A Complete Unknown, restando ben fermo nei margini di un cinema apparentemente classico, racconta con piglio deciso una trasformazione: quella di una musica popolare mai doma, sempre alla ricerca di una declinazione verso il futuro; quella di un artista restio ad adagiarsi in una comodità dorata per rimettersi continuamente in gioco e in discussione; quella di una società fremente ma ondivaga, spesso incapace di accettare gli impulsi improvvisi di modernità, l’impatto di nuove generazioni disposte a tutto per far sentire la propria voce. Nel suo piccolo, seguendo una linea di ostentata e umile semplicità, tenendo fede a una compattezza narrativa e stilistica, A Complete Unknown parla di noi (parla a noi, come il suo film paradossalmente gemello: il documentario di Martin Scorsese No Direction Home), di come siamo disposti ad inchinarci al genio, e di come il genio – in un modo o in un altro – sia capace di spiazzarci continuamente, cercando il rifiuto o l’adesione, e di mostrarci una chiave interpretativa, diversa e probabilmente migliore, del mondo. In anticipo, sempre in anticipo.