Non ha ambizioni, accetta con automatismo la corruzione presente a ogni livello nelle forze di polizia, fuori dal lavoro vive una vita solitaria nel suo piccolo appartamento tra sigarette, cibo veloce, televisione antica che non smette d’incepparsi; una fotografia lo ritrae con una donna (la moglie morta in un incidente). Fa il poliziotto in un quartiere popolare del Cairo e con i suoi gesti ricorda colleghi cinematografici più alla deriva che integrati di tanto cinema del passato. Si chiama Noredin Mostafa ed è l’eroe sconfitto di Omicidio al Cairo (The Nile Hilton Incident), terzo lungometraggio di Tarik Saleh, regista svedese di origine egiziana che, come nei precedenti Metropia (2009) e Tommy (2014), si avventura nei territori del mistero e del crimine. Nel caso di Omicidio al Cairo per raccontare il malessere della società egiziana che sarebbe sfociato nella manifestazione in piazza Tahrir del 25 gennaio 2011, incipit della rivolta popolare contro il dittatore Hosni Mubarak. E lo fa collocando il film a ridosso di quell’evento, dal 15 al 25, con didascalie che scandiscono il passare dei giorni e indicano i vari luoghi della metropoli scelti come set di una storia che coinvolge i vertici della polizia, l’apparato della sicurezza di stato, parlamentari e cantanti, migranti sudanesi costretti alla povertà e alla marginalità. E lo fa ispirandosi a un fatto di cronaca nera avvenuto nel 2008: l’omicidio della star della canzone libanese Suzanne Tamin a Dubai il 28 luglio orchestrato da un uomo d’affari e parlamentare egiziano.
Eppure Il Cairo che si vede non è Il Cairo. È stato ricreato a Casablanca. A tre giorni dall’inizio delle riprese, la sicurezza di stato (proprio una delle istituzioni criticate dal film, responsabile di sparizioni e omicidi) ha posto il veto alla lavorazione per cui la produzione è stata costretta a trovare un’alternativa. E l’alternativa è stata quella di ricorrere alla finzione assoluta, in questo caso per superare una completa censura governativa. Bisogna credere a quello che si vede, e Tarik Salih è riuscito a re-inventare Il Cairo sull’altro lato del Nord Africa, non nascondendo lo stratagemma, in certe scene ben visibile, ma al tempo stesso facendo scaturire da esso la verità di un luogo rimasto fuori campo nel suo corpo originale. Salih fa compiere a Noredin (cui dà corpo e volto contemporaneamente immutabile e ricco di sfumature Fares Fares, l’attore svedese di origine libanese che esordì nel 2000 con la commedia Jalla! Jalla! diretta dal fratello Josef) un viaggio dentro la copia conforme del Cairo, lo fa agire in ambienti a lui noti (le strade attorno alla sua casa, la zona del commissariato) e in altri che lo catapultano in una realtà che gli è estranea (l’appartamento lussuoso della cantante tunisina amica e collega della donna uccisa; la villa con parco e campo da golf del parlamentare corrotto e complice dell’omicidio della cantante in una stanza del Nile Hilton – fatto dal quale si sviluppa tutta la narrazione). Noredin sa apparire goffo e impacciato ed essere concreto e determinato; e sa, di fronte a quel caso che tutti vorrebbero chiudere in fretta perché tocca anche persone amiche di Mubarak, che è tempo di fare delle scelte, di (provare a) reagire, mentre la città inizia a bruciare e i suoi colleghi non mostrano nessun indugio a sparare dai tetti sulla folla. Se il film avanza troppo mono-tono nella forma e nel racconto (la denuncia soprattutto di violenze e torture rimane abbastanza in superficie), riserva invece nella sua conclusione una fotografia spietata dell’Egitto. In mezzo ai manifestanti, Noredin sta per sparare al suo superiore che porta con sé una valigia piena di soldi. Non lo fa, esita, mentre l’uomo svanisce tra la folla, viene picchiato da un gruppo di persone che poi lo abbandona (“non dobbiamo essere come loro”) per unirsi al popolo in marcia per una libertà ancora oggi (sempre più difficile) da ottenere.