Le spie sono diventate terroristi e si sono unite in una sorta di Nazione invisibile chiamata Sindacato. Questo il nuovo nemico di Ethan Hunt, leader spericolato della Mission: Impossible Force, che, però, non se la passa bene perché è troppo rocambolesco il suo modo di agire e di rincorrere il male, a scapito di monumenti, palazzi, disastri ritenuti prevedibili. Inizia subito adottando la chiave dell’ironia il quinto Mission: Impossible – Rogue Nation, prodotto e interpretato da Tom Cruise e diretto da quel Christopher McQuarrie (che con Cruise aveva realizzato il bel Jack Reacher). La formula di questo quinto episodio è quella nota, ma al tempo stesso è diversa. Perché qui si gioca proprio sull’aspetto seriale, sull’eliminazione degli elementi mitici che trasformavano i film precedenti (di De Palma, John Woo, J.J. Abrams, Brad Bird) in racconti ben oltre il limite dell’avventura, in esperienze cinematografiche vere e proprie nella messa in scena seria e sontuosa della lotta perenne tra bene e male. Non c’erano le raffinatezze esistenziali di vecchi agenti segreti britannici, né le pause continue fra battute e provocazioni personali. In quei film si vivevano i sentimenti fino in fondo, anzi, in modo iperbolico e catartico, si compiva sotto i nostri occhi il rinnovamento di un patto di solidarietà tra film e spettatore: la fiducia assoluta del primo, ricambiata dall’assoluta adesione ai meccanismi dell’inverosimile del secondo. Una sorta di gabbia, quest’ultima, di cui era prigioniero un malinconico e fiero Ethan Hunt, capace di ogni cosa, eppure anche fragile nel suo microcosmo di umani super poteri. Di questo personaggio è rimasto in Rogue Nation solo una certa fierezza, e la leggerezza che qui, però, sconfina nella parodia. Non si prendono più tanto sul serio gli agenti segreti, che stanno letteralmente tentando di salvare un mondo tanto simile al nostro, né si avverte l’aura grandiosa del loro agire. C’è ancora una certa frenesia di spostamenti, da Londra a Vienna, a Casablanca e poi di nuovo a Londra, ma come in un videogioco seriale e senza ormai il senso del tempo che passa, il conto alla rovescia che ci teneva incollati alla sedia e trasformava il film in una spettacolare macchina del tempo, polverizzato in frazioni infinitesimali di secondo, tutte organizzate in caleidoscopiche immagini e azioni.
Ci aspettavamo Mission: Impossible e abbiamo trovato 007. Volevamo l’irriverente sovvertimento di ogni regola, e ci troviamo invece, di fronte ad un labirinto elegante, che procede come un orologio verso la conclusione (ma che allude anche ad un nuovo inizio). Basterebbe mettere a confronto il lungo inseguimento in motocicletta sui tornanti marocchini, e quello estenuante e sontuoso di Mission: Impossible 2 di John Woo, per cogliere le differenze e capire dove la serie rischia di andare. Oppure la scena in totale silenzio per entrare nel quartier generale della CIA di De Palma, nel primo episodio, e quella davvero sommersa, nel cuore di una centrale elettrica. Potrebbero sembrare simili, invece sono l’una l’opposto dell’altra. L’eroe qui è ormai senza maschera, personaggio senza chiaroscuri. È l’eroe granitico dell’era moderna, del “qui e adesso”, immemore di ciò che è stato e di dove andrà. E poco conta l’omaggio a Hitchcock dell’inizio. De Palma era riuscito anche in questo caso ad andare più in profondità.