Un gruppo di teatranti sta mettendo in scena uno spettacolo: la macchina da presa ce li presenta così, in medias res, entrando direttamente in mezzo all’azione. Il flusso di movimento è perenne, la recitazione è sopra le righe, urlata, il fremito emotivo del teatro/cabaret è tattile, fisico, quasi schizofrenico, fino a un incidente che interrompe la rappresentazione. Inizia così Les Ogres, opera seconda della francese Léa Fehner, vincitrice dell’ultimo Festival di Pesaro: un turbinio di suoni, corpi, voci, rumori che creano da subito un senso di immersione e spaesamento in questa strana comunità definita da un tangibile senso di nomadismo – emotivo e fisico – tipico di una qualsiasi famiglia disfunzionale. E impariamo a conoscerlo pian piano, senza il fardello di didascaliche spiegazioni, questo bizzarro branco pieno di contraddizioni e improntato a un dolente vitalismo: dei personaggi – gli “orchi” del titolo, furiosi ma con un fondo irriducibile e docile – che sembrano confondere scena e fuori scena, che vivono senza pelle le loro emozioni, i loro litigi, gli amori feriti e le urla di recriminazione.
Il “Danaï Theatre” è una comunità itinerante, che mescola Čechov con il cabaret, che sembra sprizzare uno spirito circense difendendo però la propria identità culturale («Questo è un teatro, non un circo» esclama esasperato il direttore/padre della compagnia), che quasi sempre confonde la vita con l’arte, quasi incapace a mantenere una giusta distanza tra la fiammella della vocazione e il fuoco della vita vera. Les Ogres è in fondo un appassionato urlo d’amore all’intimità dell’attore, alla forza vulnerabile dei singoli che affianca e sostituisce il talento, all’indistruttibilità del gruppo, che si rivela un’entità allo stesso tempo concretissima e astratta. Un’esigenza di vita più che un altare dedicato alla mistica della vocazione. I personaggi si rincorrono, si amano, si tradiscono, si scambiano affetti e rancori: si abbatte ogni barriera tra la vita vissuta e quella rappresentata – e la scelta di Čechov, il più umanista dei drammaturghi moderni, non appare casuale – in nome della mimesi assoluta dell’atto artistico. Ogni confronto si tramuta in una psicoterapia di gruppo, ogni scena è prolungata oltre il necessario, esasperata fino al parossismo: la stessa durata del film (145’ senza un attimo di pausa, quasi senza un silenzio) appare gonfiata, sormontata dall’energia dei protagonisti che si susseguono in scena, litigandosi spazi e attenzioni. La regia di Fehner è quindi asservita ai suoi personaggi, li tortura e li coccola, saturando la scena fino al limite dell’affollamento, alla ricerca di un imprevisto continuo che possa mescolare le carte e sottolineare gli scherzi del caso e del destino. Ogni segmento – e ogni personaggio – sembra retto da una corda di sicurezza sempre sul punto di spezzarsi: ogni ingranaggio è a rischio di rottura, spinto ad acrobazie senza rete. Il privato, al “Danaï Theatre”, è sempre di pubblico dominio, tra rivelazioni e menzogne, e le discussioni libere che mescolano arte e vita dettano il montaggio, spesso finendo per annullarlo. Il risultato è un film stracolmo, ipercinetico, contraddittorio, fluido e magnetico. Certo, non mancano ammicchi, forzature, qualche furbetteria (una rissa da bar quasi danzata al ritmo di Celentano) ma tutto sembra ricomporsi nel magma frammentato del racconto in cui, in maniera naturale e sempre più contagiosa, si plasmano i personaggi e le dinamiche collettive. A illuminare il tutto ci pensa il sorriso solare di Adèle Haenel che, con il suo pancione in procinto di esplodere un figlio dai molti padri, rappresenta in maniera tattile e terrena, senza ombra di retorica e anzi con mirabile capacità di commuovere, il futuro ipotetico dell’intero gruppo/famiglia.