Non è tanto questione di stupore vergine, di tensione incontaminata, se I racconti dell’Orso si staglia con tale freschezza e simpatia nel panorama spesso sin troppo strutturato degli esordi italiani. Ciò che affascina maggiormente in questa opera prima autoprodotta è in realtà proprio la capacità di elaborare una visione del mondo cinematograficamente anche molto stratificata, in maniera tale da giungere all’occhio dello spettatore come fosse un’immacolata concezione. Lo spazio incontaminato offerto al film dallo scenario scandinavo, naturalmente magico ed evocativo, diviene l’ambiente in cui si struttura il gioco di relazione, costruito tra la fuga e l’inseguimento, di due creature cadute sulla terra da un altrove immaginario. L’informe omino rosso, sospeso nell’infantile fuga alla scoperta della realtà, e il sacerdote incappucciato e mascherato come un androide che lo insegue senza tregua, condannato a condividere la sua esplorazione, sono le figure di un immaginario universo fantasy, astratto e performativo, che Sestieri e Amato oppongono all’evidenza puramente naturalistica dello scenario nordico, tanto incantevole da apparire incantato nella sua concretezza elementare, fatta di acqua, luce, terra, cielo.
È su questa semplice opposizione che I racconti dell’orso trova l’equilibrio di una narrazione che ha qualcosa di arcaico nella sua ingenuità, ma anche qualcosa di teorico nella sua funzionalità. L’insidia sottesa infatti al rapporto di dipendenza che unisce le astratte figure dei due protagonisti (padre/figlio, servo/padrone, fuggiasco/inseguitore, ingenuo/sapiente…) dialoga – distrattamente ma molto concretamente – con la relazione tra trascendente e immanente che esse intrattengono: il loro viaggio è una fuga verso la libertà che ben presto entra in relazione con la fine del tempo, il termine ultimo dell’esistere che si traduce in attesa della morte. L’orsetto di peluche, che incontrano e consegnano all’altrove da cui forse loro stessi sono scaturiti, è l’oggetto transazionale di un rapporto con una dimensione superiore che i due costruiscono progressivamente nel loro viaggio terreno. Ovviamente tutto questo giunge con la semplicità della fiaba che il film comunque vuole essere, sfacciatamente ingenua e ludicamente sapiente nella sua ricerca di un confronto dinamico con la creazione filmica, pensata dichiaratamente a braccio nei quattro mesi trascorsi dai registi e interpreti tuttofare tra Norvegia e Finlandia. E allora la scansione in capitoli su cui insiste il racconto è gioco semplice di un’idea di cinema che vive prevalentemente nel fascino del filmabile posto in ludica relazione con le sovrastrutture passionali dei due autori, nemmeno troppo nascoste, che vanno da teosofie lucasjediane a fantasie jonzeiane, accese in un mondo fuori dal tempo, sognato da una bambina miyazakiana che, addormentata sul sedile di dietro di un’automobile, evoca mondi incantati al di là del vetro. Sestieri e Amato lavorano con perizia sulla composizione fotografica del quadro, sulla nordica sperequazione crepuscolare tra luce e ombra, sulle geometrie tra sfondo e figure trovate nel campo lungo (e quasi sempre perse, purtroppo, laddove muovono la camera). Si lasciano catturare un po’ troppo dalle architetture artistiche e dalle sorprese installative scovate del paesaggio, ma allo stesso tempo tengono acceso il dialogo con lo spettatore grazie alla fluidità emotiva che concedono ai due protagonisti, al loro progressivo trovarsi nello smarrimento. Il dialogo tra loro è quello tra l’informe sagomatura dell’omino rosso, sorta di figura digitale in fuga nel mondo reale dalla virtualità di un ipotetico greenscreen, e la presenza performativa del sacerdote incappucciato e mascherato, sovrastrutturato di oggettistica elettronica: tensioni opposte di un discorso fantastico alle prese con la gettatezza dell’essere (umano)…