Resta soprattutto il livellamento, la dimensione piana delle geometrie esistenziali che Wang Bing mostra in Youth (Spring), in Concorso a Cannes76. Siamo a Zhili, 150 chilometri a ovest di Shanghai, centro di un’industria tessile che nutre poi il sistema globale partendo dai laboratori in cui truppe di ragazzi e di ragazze passano le loro giornate alla macchina da cucire, unendo porzioni di abiti che poi saranno cucite altrove, in una sorta di autopsia del vestire che lavora su parti, dettagli, elementi. Quotidianità di un esistere in simbiosi con le macchine e con la fabbrica, frattaglie del cucire sparse per terra, sfide di velocità a chi completa più pezzi, colori che esplodono in un carnevale dalle danze meccaniche, conteggi di pezzi lavorati e di Yen che si guadagnano, piccole contrattazioni col padrone. Wang Bing non guarda il dettaglio ma la scena, individua i suoi protagonisti, li osserva, ne dichiara le generalità, l’età, la provenienza, ne ascolta le voci e ne coglie le storie, tutte uguali e tutte diverse. Uno scenario unificato, senza valutazioni di ruoli, legami, funzioni, tutto disperso nella semplicità di una funzionalità meccanica che si spinge dalle ore di lavoro a quelle nelle camerate in cui dormono tutti. Il regista li segue anche nel tempo libero, che però è letteralmente complementare a quello del lavoro, per disposizione emotiva ed esistenziale di questi ragazzi: non sembra esserci separazione nei suoni, nel colori, nelle espressioni, tutto converge su una produttività che è quasi chiave esistenziale, destinata a colmare il gap delle loro vite presenti in una prospettiva futura (tornare a casa, sposarsi, fare figli, lavorare per conto proprio), senza però avere una dinamica differente, senza segnare un’alterità tra vita e lavoro.
La cosa che più colpisce in Youth (Spring) è proprio questa assenza di differenza, il coerente succedersi dei momenti esistenziali di questi ragazzi, che vivono la meccanicità del loro lavoro con la stessa leggerezza con cui vivono la meccanicità del loro tempo libero. Lo sguardo di Wang Bing trova forme, figure, ritmica dei corpi al lavoro, i gesti che si ripetono rapidamente a descrivere una macchinizzazione dell’esistere che se è storia antica e ben nota, risulta ormai una questione ormai assimilata e metabolizzata da un sistema sociale che disperde l’individuo. Il punto focale di Youth (Spring) è del resto proprio questo azzeramento della consapevolezza che si sovrappone alla consapevolezza dell’azzeramento: il gioco reciproco di una raffigurazione dell’esistere nel sistema, che non sfrutta più solo il lavoro, ma occupa la vita, utilizza le esistenze stesse di questi giovani operai, ovvero le rende funzionali alle loro dinamiche produttive. Questi ragazzi integrano il ciclo in se stessi: producono e consumano in un circuito di cui sono parte senza alcuna differenza, senza diffidenza e senza separazione possibile. Wang Bing mostra questa integrazione, la rende palese, visibile, plastica, senza emettere né ammettere giudizi, senza costringersi a valutazioni, che restano però nell’evidenza del visibile, nella prassi di questo suo progetto nato in realtà nel 2016, di cui Youth (Spring) non rappresenta che il primo capitolo.