L’esordio alla regia dell’attrice romana è stato Being my mom, cortometraggio surreale dedicato alla madre, nel quale il rapporto madre-figlia che si sviluppa tra i due personaggi, ha tanto dell’inutile quanto del poetico. Nel loro girovagare per le strade di Roma un po’ senza meta, ma anche nella sicurezza del solido rapporto che le lega, ritroviamo il piacere di un racconto sganciato da ogni realismo, la rielaborazione di un sogno, la trasformazione di una realtà in magico gioco infantile un po’ senza scopo, un po’ lontano da ogni ragionevole finalità. Non vi è dubbio che l’elaborazione ulteriore di Marcel! – primo lungometraggio di Jasmine Trinca, presentato all’ultima edizione del Festival di Cannes dove la stessa regista era in giuria – nasca da quelle stesse suggestioni, sia frutto di una espansione di un racconto interiore che ha la stessa matrice di Being my mom. A conferma di questa linea di continuità tra i due film oltre che le dichiarazioni della regista, la presenza di Alba Rohrwacher, che da quel primo lavoro prosegue a impersonare una madre persa in un mondo fantastico e ostinatamente inaccessibile. Madre e figlia vivono in un sobborgo della metropoli, di fronte l’abitazione della nonna e del nonno genitori del giovane padre scomparso. La madre è un’artista di strada e il suo numero cavallo di battaglia è con Marcel il suo cagnolino trattato come un bambino. Quando Marcel sparisce, complice la figlia che è un po’ invidiosa delle attenzioni che la madre dedica al cagnolino, la madre cade nella disperazione. Continua il suo lavoro di artista di strada e il rapporto tra madre e figlia troverà un nuovo e più solido afflato.
Il film, la cui trama diventa solo un pretesto necessario per mettere in scena fantasmi e ricordi, desideri e immaginazione, un rapporto con la madre silenziosamente cercato dalla figlia, ma complicato da instaurare per la distanza che la madre frappone. Marcel!, per questi motivi, non vi è dubbio che viva e si alimenti di una intimità della sua autrice, conformandosi ad uno sguardo malinconico e smarrito sull’esistenza, affidandosi agli stretti rapporti parentali nei quali trovare la possibile consolazione davanti allo smarrimento e all’isolamento. Jasmine Trinca elabora in forma quasi onirica e comunque sospesa in una dimensione immaginaria, una specie di eterna fanciullezza, il suo racconto e affida alla sua piccola protagonista il compito di legare i mondi, quello della nonna persa in un passato a lei sconosciuto, quello del nonno forse sapiente, ma silenzioso, quello della madre vittima di una solitudine che era consolata solo dalla presenza di Marcel. Un compito che la piccola protagonista (sono tutti senza nome i personaggi), svolge anche attraverso la musica del suo sax quasi più grande di lei. È un invito all’arte, quell’arte che può salvare la vita e alla quale è necessario dedicare la vita per consumarci dentro ogni amarezza. C’è un alone di tristezza nel racconto, di dimessa consapevolezza rispetto ad ogni speranza, tanto che il sogno diventa quasi un incubo dominato da un incomprensibile malessere, da qualsiasi possibilità di mutamento se non l’acquiescenza consapevole ad una sempre più inguaribile solitudine, che si consuma nella progressiva chiusura di quel rapporto madre-figlia che sta al fondo e costituisce l’anima del film.
Un malessere dal quale la madre prova ad uscire usando le monete dei ching per divinare il futuro in quel presente così ostico da interpretare come sembrano segnalare i titoli dei capitoli che scandiscono il tempo del film arricchiti dai simboli della cultura divinatoria cinese. Non sono peregrini i temi che pone Marcel!, ma è forse la modalità in cui vengono messi in scena, o forse la sensazione di assistere alla modalità che scandisce il percorso di una vite senza fine, a fare ristagnare la progressione, a mancare di finalizzare completamente il racconto, pur fatto di sentimenti piuttosto che di eventi. L’eterna sospensione dentro la quale il film si sviluppa diventa privazione di quello spettacolo che si attiva quando emergono i sentimenti. Marcel! si rifà evidentemente ad un mondo poetico interiore, ma anche l’anima ha bisogno di emergere e mostrarsi completamente, mentre qui, resta nel limbo dell’embrione, nel misterioso anfratto della coscienza, senza farsi misura di quella umanità materna e filiale che il film racconta dal principio alla fine. Opera prima, dunque, nella quale domina un’inquietudine che è sicuramente preziosa per gli sviluppi futuri della carriera di Jasmine Trinca, ma anche opera seconda nella quale elaborare, con l’occhio necessariamente femminile, un rapporto filiale (e di converso materno) che evidentemente le sta a cuore, completato dalla dedica del film ai genitori. Ma anche opera che si muove dentro uno stimolante universo personale, che non è romantico, ma è governato da una originale poetica che sa essere surreale e quindi anche aspra, non accomodante. In questo universo è però necessario trovare una rotta meno incerta, che sappia far condividere quel mondo interiore pieno di panorami personali.