Crea un senso/una sorta di straniamento The Feeling That the Time for Doing Something Has Passed, lungometraggio d’esordio della cineasta e attrice statunitense Joanna Arnow presentato nel concorso internazionale a regia femminile “Nuovi Sguardi” di Sguardi Altrove 31. Con passaggi a volte molto veloci, per indicare il ripetersi delle cose, altre volte (la maggioranza) più lenti, a chiusura di scene più espanse, il film adotta una struttura basata quasi esclusivamente su inquadrature fisse, all’interno delle quali si sussegue una serie di micro-eventi spesso ricorrenti, ri-proposti con variazioni narrative e di collocazione della macchina da presa, di cui è protagonista assoluta la trentenne Ann (interpretata dalla regista, che ha firmato anche sceneggiatura e montaggio), una ebrea newyorkese. Ne risulta il farsi e ri-farsi di situazioni quotidiane spinte verso l’astrazione, l’im-mobilità, la ripetizione, fino a tingersi di assurdo e surreale, a osservare quanto accade con un distacco formale cesellato, che raddoppia il distacco con cui i personaggi agiscono. The Feeling That the Time for Doing Something Has Passed comincia e termina con Ann e uno dei suoi amanti, Allen, con cui si intrattiene da quasi dieci anni: li vediamo a letto, in posizioni differenti, nell’attesa di un piacere rinviato, di una distanza fra i corpi che si impone nonostante la loro vicinanza.
Entrambi non sanno pressoché nulla l’uno dell’altra, oppure dimenticano minimi dettagli, e alla fine, quando scopre che Allen è sionista, Ann interrompe la “relazione”, per poi riallacciarla. Le due scene fanno da cornice ideale a un film nel quale la giovane protagonista cerca un suo modo per stare al mondo, trovandosi incapsulata in azioni sempre uguali eppure sempre diverse. Si tratti di incontrare uomini, di varie età, conosciuti in siti d’appuntamento in rete, con i quali instaurare un “gioco” erotico che non implica emozioni e coinvolgimenti (salvo nel caso del coetaneo Chris con cui instaurare qualcosa di più durevole, una possibile storia d’amore, andare al cinema, in spiaggia, cenare insieme). Oppure frequentare corsi di yoga, andare a un concerto, in un bar, accogliere in casa la sorella maggiore, svolgere le proprie mansioni in un’azienda focalizzata solo sulle prestazioni da raggiungere in riunioni asettiche. Ann fa anche visita ai genitori (sono i veri genitori di Joanna Arnow), un’anziana coppia di ebrei meravigliosamente rappresentati nelle loro litigiosità, nei silenzi negli auto-isolamenti casalinghi. Nella scena più commovente del film, vediamo il padre cantare e suonare alla chitarra il brano tradizionale Solidarity Forever.
Ann sembra immersa in un “loop” dal quale non riesce a uscire (e il finale in tal senso è emblematico e rimanda a quello di un altro film, di ben altra potenza, All Eyes Off Me dell’israeliana Hadas Ben Aroya, una delle cineaste più talentuose di questi tempi) e che Arnow descrive con nitidezza, pur non sorprendendo, e con un realismo denso di un umorismo leggero e persistente diffuso nelle immagini. In questa scena Ann è di fronte a un bivio, vorrebbe affrancarsi dalla sua quotidianità che assomiglia a un limbo, ci prova per poi tornare a frequentarla, vorrebbe sbriciolare quelle tante pareti (delle stanze domestiche, di quelle degli uffici, della casa dei genitori, di altri ambienti) che de-limitano la sua esistenza, sentendo che “il tempo per fare qualcosa è passato” o sta comunque scivolando via. Arnow porta il suo volto e il suo corpo a stazionare e aggirarsi negli ambienti, mettendoli, volto e corpo, alla prova di fatti che solo in apparenza costituiscono delle novità. E allora il film assume la staticità di “tableaux vivants”, dove l’unico corpo a spogliarsi, nudo in tante scene, è quello di Ann/Joanna, passivo-attivo, ammiccante, insoddisfatto, femminista, seducente. In uno spazio-tempo cristallizzato, mentre all’esterno si muove, frenetica e lontana, fuori campo, come in un’altra dimensione, un’altra quotidianità, quella di una metropoli come New York.