Fin da bambino coltivava il sogno di diventare un calciatore professionista, a dispetto del fisico mingherlino, della dislocazione in provincia, delle remore materne e (più avanti) delle ginocchia di cristallo, che anni dopo lo costringeranno a un precoce ritiro agonistico. Ma dalla sua aveva una passione immensa per il pallone, coraggio e cuore, un’inesausta voglia di vincere; oltre al talento, ovviamente, e a un fiuto straordinario per il gol. Si racconta in prima persona, Paolo Rossi (1956 – 2020), nel documentario che Michela Scolari e Gianluca Fellini gli hanno costruito attorno, prima che la malattia lo piegasse; un film che arriva nei cinema in questi giorni di celebrazione del 40º anniversario della vittoria italiana ai Campionati del Mondo di calcio in Spagna. Lo fa con sincerità disarmante, tenendosi distante da derive narcisistiche, modesto senza affettazione nel ricordare le proprie (e altrui) qualità calcistiche, puntuale nella distribuzione di meriti, responsabilità e titoli. La struttura del biopic segue un andamento rigorosamente cronologico e un’impostazione tradizionale, anche se volutamente poco equilibrata nel racconto delle differenti fasi della vita dell’attaccante che seppe rinascere dalle proprie ceneri. La scelta di fondo è quella di mettere al centro della narrazione proprio il Mundial spagnolo, non solo per l’evento in sé ma anche per la sua profonda valenza simbolica, per il peso enorme che occupa nell’edificazione della leggenda di Paolorossi (tutto attaccato), come sarebbe rimasto scolpito nell’immaginario di più generazioni, a diverse latitudini. Ma ci sono altri due momenti – uno precedente e uno successivo rispetto a quello – che sono oggetto di precisa sottolineatura, pur occupando uno spazio inferiore: il Mondiale argentino del 1978, che consacra Pablito come uno dei grandi finalizzatori del calcio di allora; la tragedia dell’Heysel del 1985, che oscura la gioia per la conquista della Coppa Campioni, in quella che sarà l’ultima apparizione di Rossi con la maglia della Juventus.
Pur nella sua asciuttezza, determinata anche dalla scarsità di immagini d’archivio, è comunque notevole la parte iniziale dell’opera, dedicata agli anni pratesi del centravanti toscano: poche sono le notazioni personali e quasi inesistenti quelle familiari, mirate quelle ambientali; eppure, tutte insieme, trasmettono con esemplare chiarezza l’idea di un’infanzia calcistica spensierata, positivamente segnata dall’ammirazione per le prodezze di Kurt “Uccellino” Hamrin, stella svedese della Fiorentina a cavallo tra anni 50 e 60, al quale il piccolo Paolo si ispirava per il proprio ruolo di ala (conservato fino alle soglie dell’avventura professionistica). Quando la vicenda si avvicina al periodo sotto i riflettori, i registi affiancano alla narrazione principale in prima persona svariate testimonianze di personaggi che interagirono con il calciatore e con l’uomo: da quelle di Hamrin stesso alle dissertazioni dell’onnipresente Luciano Moggi, che segnalò il campione in erba alla Juventus; dai ricordi di Giussy Farina – il presidente del Lanerossi che si svenò per trattenerlo a Vicenza dopo una battaglia alle buste con la squadra torinese – a quelli di Franco Carraro, dirigente per tutte le stagioni del calcio tricolore, che si scandalizzò per la “immoralità” delle cifre esposte.
La strana delazione che zavorrò la carriera di Rossi (in quello che resta uno dei pochi episodi mai del tutto chiariti, anzi decisamente opachi, del “calcio-scommesse”) è passaggio necessario ma per nulla insistito, che si colloca tra i due Mondiali e consente al protagonista di mettere a fuoco la stima assoluta di Enzo Bearzot (e ricambiata pari pari) nei suo confronti; una fiducia mai venuta meno, neanche nei giorni caldi del ritiro azzurro e del clamoroso silenzio-stampa, che secondo molti cronisti dell’epoca era cieca ottusità, se non addirittura inspiegabile masochismo (specialmente dopo il deludente girone eliminatorio “di un ex bomber che vaga per il campo come un fantasma”), ma che in realtà affondava le proprie radici in un mix di affetto paterno, fede nelle proprie idee e pragmatismo calcistico, considerato che il “Vecio” era convinto che con Rossi in formazione gli Azzurri potessero raggiungere qualunque obbiettivo, e che senza avessero invece limiti precisi. Come sia andata la storia, è cosa nota a tutti; ma è bello rivedere ancora una volta le immagini trionfali – dentro una cornice che evita alla retorica di debordare e intanto ci riporta all’ultima epoca romantica del calcio – dei cavalieri che fecero l’impresa, del loro riottoso condottiero friulano, dell’eroe ormai inatteso e invece capace di giungere puntualissimo all’appuntamento definitorio con il “momento de la verdad”, dei comprimari, delle guest star (come il presidente Sandro Pertini). E poi ascoltare le parole dei compagni di Paolo Rossi e di avversari ammirati, che reiterano la gioia di una pagina indimenticabile della storia italiana. Le emozioni fluiscono senza orpelli; il documentario svolge la sua funzione con efficacia; Paolo Rossi è destinato a rimanere per sempre Pablito, nella nostra memoria.