Di fronte alla Primavera in una piccola città non resta che ammettere la propria ignoranza sul cinema, l’incompletezza di qualsiasi informazione acquisita e la necessità, da anni avvertita grazie all’enorme lavoro di restauro e recupero di opere pensate minori, di rivedere quei “codici” dati troppo per certi. Tema che ricorre spesso, in questi giorni, de Il Cinema Ritrovato e più volte sottolineato nel suo corso dallo stesso Gian Luca Farinelli, sin dalla giornata di inaugurazione: “Abbiamo voluto essere in quattro a dirigere il festival perché nessuno di noi quattro conosce tutte le opere che presentiamo ogni anno. Ed è questa la ragione che ci unisce, la necessità di ripartire dalla consapevolezza di questa comune ignoranza. Sappiamo ancora troppo poco del cinema.” E non può esserci film e regista migliore di Fei Mu per capire quanto questo sia vero. Un capolavoro non può nascere dal nulla. Si può scrivere un grande romanzo in solitudine, ma non un film. Non tanto per la dimensione collettiva, da cui dipende anche la qualità dell’opera, quanto dalla stratificazione di esperienze, industriali quanto artistiche o di mestiere, che esso presuppone. Ed è il caso del cinema di Shanghai prima della rivoluzione cinese. Un’esperienza ancora oggi in gran parte sconosciuta, e non solo in occidente, essendo stata oggetto di censura e di rimozione anche in Cina. Con la rivoluzione del 1949, case di produzione, registi e maestranze emigrano a Hong Kong, che come Hollywood con l’emigrazione russa e tedesca, costruirà il suo impero cinematografico sull’emigrazione cinese e non solo, a causa anche delle invasioni giapponesi su tutto il continente e le sue penisole.
Shanghai fu quella che dette il maggior contributo, essendo la città dove il cinema cinese era nato e dove era diventato il maggior centro di produzione del continente asiatico, seconda solo al Giappone ed escludendo l’India. Alla pari di quello americano, ma senza averne l’aura di fucina creativa, è stato a lungo considerato e diminuito come un cinema “commerciale”. Una categoria oggi inservibile, ma che risulta anche non veritiera di fronte a Primavera in una piccola città, un film che fa pensare a Ozu, o al cinema autoriale europeo. Riscoperto solo nel 1981 il film è stato restaurato e oggi viene considerato una pietra miliare del cinema orientale, tanto da essere stato oggetto recentemente anche di un remake diretto da Tian Zhuangzhuang, intitolato Springtime in a Small Town. Per capire ancora meglio il rapporto tra industria e creazione nel cinema va ricordato che il film segna un punto di arrivo nella carriera di Fei Mu, ma in realtà nasce dall’idea di coprire con pochi mezzi e pochi attori un buco di tempo inutilizzato della casa di produzione con cui il regista non si limitava a essere sotto contratto, ma stringeva rapporti di amichevole collaborazione che continueranno anche dopo la fuga di tutti a Hong Kong.
Averlo visto ignorando le condizioni storiche in cui il film è nato può solo aiutare a coglierne la grandezza e vederne la magnificenza. A lungo interpretato come metafora della condizione di depressione da cui la Cina usciva, nel 1945, dalla guerra con il Giappone, il film è un rigorosissimo Kammerspiel, di soli cinque personaggi dentro una casa semidiroccata (bombardamenti del Giappone, ma anche semplice abbandono dovuta alla malattia del protagonista), circondata da un paesaggio spoglio, senza alcun riferimento temporale o di luogo. Una donna costeggia un muretto lungo il sentiero che la riporta a casa e siamo subito con lei, voce narrante del film. Una narrazione che osa non aggiungere nulla, non un solo dettaglio a quanto ci viene mostrato. Un artificio potentissimo, solo apparentemente ridondante, che invece riporta il cinema alla sua natura di gesto letterario (Bazin avrebbe saputo analizzarlo al meglio). Ci vengono descritti i gesti più quotidiani, che la donna ci racconta essere tutta la sua vita e che le vediamo ripetere. Un’amplificazione nel tempo della reiterazione, ma non solo. La voce narrante diventa un sovra-testo e lo schermo uno spazio di proiezione collettiva come solo il racconto orale, all’origine della letteratura, poteva fare. Nulla di teatrale nel gesto più teatrale che ci sia, nulla di letterario nell’uso più letterario che si possa immaginare. Una vera epifania del cinema, non più somma di arti, ma loro svelamento. Dopo averci presentato gli altri personaggi del film, il marito, la sorellina del marito e il suo vecchio domestico, puntuale e inatteso arriva il punto di svolta: il ritorno dopo dieci anni dell’amico del marito. Come Antonioni con il “giallo” per L’avventura, Fei Mu usa la struttura del noir per depistarci. L’amico è anche l’ex amante della donna. Il marito soffre di una depressione cronica che l’ha debilitato. Lei finisce per desiderare la sua morte. Gli amanti tornano insieme e lo stesso marito, legato da affetto per entrambi, preferirebbe morire e lasciarli vivere. La sua breve visita diventa un lungo soggiorno e il film non porta a termine nessuna svolta, pur utilizzando tutti i colpi di scena possibili. Siamo nel 1948 e occorre ricordarci che non vi è ancora stato Antonioni, né altre esperienze filmiche che possano aver fatto da modello. Non si tratta solo dell’opera “modernista” che meglio trasporta sullo schermo la peculiarità della cultura cinese, ci troviamo di fronte ad un capolavoro mondiale. Fei Mu dirige nei suoi film molti attori di grande fama teatrale in Cina, come Mei Lanfang nel primo film a colori cinese, successivo proprio a Primavera in una piccola città. In questo consacra alla fama nazionale un’attrice minore, sino ad allora utilizzata solo per ruoli da caratterista. Verso la fine dello stesso anno fuggiranno ad Hong Kong.