È difficile capire quale sia il percorso autoriale di Saverio Costanzo. E questo è solo che un bene. Quel che appare è che Costanzo, mosso da autentica curiosità, si fa le domande giuste, libero dalle mode del momento. E questo accade anche quando adatta per il grande schermo cose da bester seller come La solitudine dei numeri primi, romanzo modesto e sopravvalutato. E anche in quel caso non è stato pedissequo, né supino, bensì ha esaltato ciò che lo interessava, chiedendo all’interprete Rorhwacher di cedere alle pressioni psicologiche di una performance alla quale in Italia non si è così abituati. Ora Costanzo dopo un film sulla questione israelo-palestinese, uno sulla vocazione di un novizio, uno sulla crisi di una ragazza borghese, ha voluto raccontare la “solitudine” di una giovane coppia alle prese con la nascita di un figlio nelle spire di una città esemplare e sotto il giogo di un’ossessione malata. Se a questi “oggetti” cinematografici si aggiunge il progetto di un film tratto dal romanzo, quello sì capolavoro, di Emmanuel Carrère, Limonov, appare chiaro che lo spettro dei suoi interessi è tanto ampio, quanto profondo, quanto imprevedibile. Hungry Hearts è tratto da un romanzo breve dal titolo evocativo, Il bambino indaco, scritto con lo stile asciutto e preciso di chi sta raccontando una storia vera, in parte vissuta sulla propria pelle. Racconta la solitudine di un padre primo, messo alle corde dalla crisi della moglie, vittima di una depressione post partum celata dall’ossessione per la contaminazione del cibo moderno, ossessione che la porta ad abbondonare lentamente i confini della sanità mentale mettendo a rischio la sua di vita e quella del figlio.
Il romanzo è molto disturbante e tira dritto come un treno, portando forse per la prima volta uno sguardo maschile, il lato e la versione di un uomo, all’interno di una materia di esclusiva pertinenza femminile. Il coraggio di Franzoso non è stato solo di scrivere bene, ma anche di mettere le mani, e i pensieri, in un universo delicatissimo che riguarda il rapporto madre-figlio nei primi mesi di vita di questa nuova coppia (e lo fa dando voce – ripetiamo – al padre e al marito, cioè all’uomo). Cosa succede nella testa di una donna che diventa madre? Quale e quanta è la impreparazione verso un ruolo che si vuole naturale e regolato dall’istinto, e che invece, come tutto ciò che riguarda l’essere umano, è il frutto di una lunga e lenta formazione e trasformazione? Non si è madri, e padri, ma lo si diventa. C’è chi parte da basi solide, fisiche e psicologiche, e chi invece viene colto di sorpresa, ancora in gestazione come persona. Non sappiamo qual è stato l’elemento che ha convinto Costanzo ad adattare il romanzo, almeno quello profondo e intimo, anche perché – e non è questa una notazione di costume – il regista romano non è diventato quell’altra persona che è un uomo quando diventa padre. Non è questo un limite. È chiaro che non bisogna essere un detective per girare un giallo, né un mafioso per fare un mafia-movie, né un padre per raccontare la crisi post partum della propria compagna. Eppure il dato e la notazione biografica hanno un peso. Costanzo va a pescare l’altrove nella vicenda di una coppia, e non a caso va altrove, lontano da qui, ambientando la storia, che di per sé non ha specifici connotati italiani, negli Stati Uniti, a New York. Porta i personaggi definiti dal romanzo in un territorio altro, esterno al loro contesto drammaturgico, quello in cui sono nati e sono stati creati, riuscendo così ad avvicinarli a sé, mettendoli sul suo stesso piano. Costanzo è uno straniero nel territorio della paternità e la maternità sofferte, e decide di portare se stesso e i suoi personaggi all’estero, trasformandoli in estranei. Così: lei è un’italiana a New York, lui è un americano a New York. Si incontrano, in un accesso di slapstick comedy, nei bagni di un ristorante cinese della Grande Mela e fatalmente si innamorano.
Il figlio arriva presto, troppo presto, e la coppia si trasforma in genitori imperfetti e impreparati. La giovane madre, accresce tutte le sue fobie e paure (il cibo, l’inquinamento, le malattie) proiettandole sulla nuova creatura, fino a un lento e progressivo perdersi. Ora, l’altra nota biografica (non secondaria) riguarda il fatto che il regista e l’attrice sono una coppia nella vita e che, anche in questo caso, è stato chiesto all’interprete una performance fisica e psicologica importante, anche lei non ancora madre e quindi lontana da alcuni sentimenti innati e costruiti, sani e insani. Ecco, allora la domanda è: perché una coppia decide di immergersi in un universo così complesso e doloroso come la crisi del diventare padre e madre, qui con toni di autentica patologia? Come ha lavorato sulle loro coscienze e sulla loro psicologia l’impatto di una siffatta dimensione? Sono domande che sembrano non riguardare il cinema, ma che invece lo attraversano totalmente, come attraversano il film. Il cinema e la vita. Diciamo questo anche perché Costanzo in questa sua trasferta americana, ha voluto eleggere cinematograficamente come padre putativo John Cassevetes, un tipo per il quale i confini tra cinema e vita erano molto labili. Tutto questo rende Hungry Hearts un film il cui interesse va ben al di là del risultato estetico.