La fragilità del cinema di Francesco Calogero, delle immagini che abitano i suoi film, si ri-trova intatta nelle istantanee dell’album in movimento, dell’home movie di una coppia felice, con una donna sorridente in riva al mare, che appaiono all’inizio di Seconda primavera. Istantanee filmiche che riaffiorano dalla memoria di un uomo seduto, a distanza di anni, su quella spiaggia. I suoi occhi proiettano quelle immagini, che per lui non appartengono al passato. Nell’oggi contenuto nel formato dello schermo panoramico si insinuano, si incastrano frammenti del passato contenuti nel formato dello schermo quadrato, intimo, segno anche di un fare cinema dismesso, fragile, eppure combattente, che non se vuole andare. Questo incipit, brevissimo, costituisce non solo l’incontro con il personaggio di Andrea, attorno al quale ruota tutta la struttura narrativa di Seconda primavera, ma la firma di un autore, isolato e resistente nel panorama del cinema italiano, che nelle sue opere ha sperimentato le varie consistenze della pellicola (Super8, 16mm, 35mm) e che nel suo ritorno al cinema (quindici anni dopo Metronotte, risalente al 2000) sembra volerle ri-abbracciare, accudire, farle co-esistere, trattenerle nel/con il suo sguardo, fino a ri-prenderle nell’epilogo che si unisce, come appunto in un abbraccio, al prologo, con Andrea a teatro (insieme agli altri personaggi lì radunati), con i suoi occhi lucidi che, ancora una volta, guardano altrove, proiettano quell’infinito home movie che si è arricchito di una nuova, temporanea, presenza, una nuova donna, la musa che lo ha spinto, forse, verso “un amore nuovo” (la canzone di De Andrè, cantata da Mario Lavezzi, è perfetta e complice inserita su quelle immagini). La donna amata, Sofia, che morì, incinta di otto mesi, in circostanze tragiche, e l’amica del cuore inattesa, Hikma, giovane ragazza tunisina incontrata seduta sul muretto del terrazzo di un appartamento in vendita, si sovrappongono nella sua visione, come il passato e il presente, si muovono lasciando segni indelebili negli spazi altrettanto intensamente vissuti da Andrea: la sua villa, il giardino, il mare.
Tra queste due cornici, Calogero, con la sua intatta gentilezza del tocco, costruisce un film corale dentro altre cornici, quelle delle stagioni e di un doppio inverno e una doppia primavera. Un film che si popola di personaggi, di incontri, di passaggi esistenziali sempre descritti e filmati con flagranza e limpidezza di sguardo. Ogni inquadratura, per Calogero, esiste se aperta all’incontro con altre, se non si chiude in sé, lasciandosi contaminare, consapevole di non essere l’unica, ma una fra le altre infinite, uno strato affiorato fra la moltitudine di strati esistenti – proprio come accade ai personaggi, alle loro vite rohmeriane. È ancora questione di fragilità, di “stare seduti sull’orlo del precipizio”, come osserva Andrea riferendosi a Sofia e a Hikma, ma più estesamente a tutti. E di passaggi filmici che, in forma diversa ma per nulla distanti dai lampi dei piccoli monumentali film familiari, trasformano l’uso meccanico del flash back e della moltiplicazione del punto di vista di una scena (quella della festa di capodanno, centrale per l’intreccio delle relazioni che si creeranno) in qualcosa di morbido, naturale, fluido, nella visualizzazione di un pensiero che casualmente prende forma e spazio per poi silenziosamente defilarsi. Come silenziosa è, tra i molti oggetti che come sempre in Calogero assumono un ruolo rilevante (si pensi agli occhiali come elementi di cambiamento: in Metronotte Diego Abatantuono era obbligato dalla miopia a indossarli; in Seconda primavera l’Andrea di Claudio Botosso li toglie per usare le lenti a contatto), la presenza dei libri: dei personaggi li leggono, qualcuno ne cita contenuti, nelle stanze sono sparsi o ammucchiati, ma mai fungono da soprammobile o da ingombro in un dialogo, sono anch’essi corpi che hanno vissuto perché toccati e letti, sono fratelli delle istantanee familiari in un film cesellato sulle sfumature, sulle espressioni dei volti, sulla sensualità dei gesti. Sul “contatto con il vuoto”, in riferimento al ponte tra la villa e il giardino che Sofia fece costruire, con il dis-equilibrio, con la straordinaria luminosa persistenza della fragilità.