Senza vie d’uscita: Trap di M. Night Shyamalan

La trappola è un luogo forse mentale o magari fisico, ambientale. È un pensiero in cui il sospetto fa lievitare la minaccia, oppure è un sistema, un habitat, in cui l’equilibrio tra il perimetro e gli elementi in esso contenuti sono il gioco per cui brucia la candela. La trappola, d’altro canto, è il luogo in cui sta da sempre il cinema di M. Night Shyamalan e Trap ne è la rappresentazione esemplare – non teorica, quella sta ben chiara in Lady in the Water. In quello che è il suo film più palesemente hitchcockiano (e quindi ovviamente depalmiano) Shyamalan dimostra a chiare lettere come quella rete connettiva di azioni e punti di vista che è la narrazione, a tutti gli effetti sia per l’appunto una trappola, un luogo chiuso in cui si agisce per cercare una via di fuga. C’è Cooper, che è un padre amorevole e al contempo uno spietato serial killer noto come il Macellaio… È lui l’eroe vagamente astratto di Trap, figura evidentemente poco realistica, un po’ Abbott e un po’ Costello, vagamente slapstick (la donna spinta giù per le scale, la madre dell’amica di Riley, il nero chiacchierone…), quasi un cartone animato in disputa con i Keystone Cops in versione Fleischer, tra l’astuzia che anima le sue azioni e il corpo goffo e le faccette buffe di Josh Hartnett…

 


 
Più inquieto che inquietante, ben distante dall’Orda che incombeva su Split, Cooper non è Kevin, che conteneva in sé tutte le narrazioni possibili e che infine radunava attorno a sé nemesi e antitesi (Glass). Cooper non è la trappola perché nella trappola ci finisce per sua stessa determinazione sin dall’inizio, già in quell’incipit in auto con la figlia Riley – perfettamente speculare all’incipit di Split, del resto. Se Kevin intrappolava le vittime per il suo spettacolo multipersonale, in Trap è Cooper lo spettatore in trappola, vittima di uno spettacolo che ha due punti focali: uno esplicito – il palco su cui canta e balla Lady Raven (Shaleka Shyamalan, figlia del regista, con le sue canzoni), l’altro implicito – la platea in cui siede Cooper con sua figlia Riley… Il perimetro è un cordone di agenti FBI che gli danno la caccia guidati da una profiler che potrebbe essere una Clarice Starling invecchiata (e con chignon vertiginosamente hitchcockiano…), interpretata da Hayley Mills – ex babydiva disneyana in geniale controcasting con Jodie Foster altra storica babystar…L’esplicito e l’implicito come il conscio e l’inconscio, il reale e il mascherato, la verità e la menzogna: quella ordita da Shyamalan è una scena morale, un sovvertimento di punti di vista (guardare le cose dalla prospettiva opposta [vaghi SPOILER in arrivo], lo dirà Cooper alla moglie, nel redde rationem domestico…) che serve a equilibrare la scena. Se poi facciamo un passo indietro come spettatori, ci accorgiamo che Trap è anche la scena in cui un altro padre (Shyamalan) porta sua figlia (Shaleka) nel cuore della trappola che ha ordito, al centro della narrazione, spingendola nella fabula di cui sarà la chiave di volta e anche la chiave d’uscita, mentre proprio lui, nel suo immancabile cameo, offre al Macellaio il pass per il backstage che è l’unica via d’uscita che ha a disposizione… E lo fa portando Cooper sullo stesso livello suo, mettendolo nella condizione di portare sulla scena Riley accanto a Shaleka, accorciando dunque le distanze tra il suo gioco registico di messa in scena e la finzione che sta elaborando…

 


 
Insomma, Trap è tutt’altro che quel film semplice che sembra. Come sempre in Shyamalan l’operazione si traduce in una messa alla prova teorica della verità che soggiace alla realtà: la forma offerta dalla narrazione è quella che spiega il mondo e lo salva (“Colpisci forte”: Signs…), rivelando la verità nel dispendio di energia affabulatoria, elaborando il senso delle cose, articolando la materia inespressa del dolore. Cooper deve attraversare il backstage per salvarsi, deve letteralmente spingersi dietro la scena cui sta assistendo per uscire dalla trappola… La sua ricerca di una via d’uscita è il bisogno del personaggio di emergere dall’ombra dell’inconscio e palesarsi in tutta la sua drammatica verità. E quando la scena sarà invertita, quando il mondo fuori dal palazzetto dello spettacolo di Lady Raven diventerà lo spazio che preme sull’angolazione concava/convessa di Cooper e del Macellaio, tutto diventa relativo, le vie di fuga si smaterializzano in una inverosimiglianza che è pura energia narrativa offerta a un personaggio col quale Shyamalan indubbiamente empatizza. Non certo per posizione morale, ma per adesione alla sua ragione identitaria meramente affabulatoria.